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Amarcord: quando i Russi invasero l’Italia

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Iniziamo oggi una nuova rubrica, Amarcord, dedicata alla storia dell’orologeria: avvenimenti e fenomeni di costume raccontati da chi quei fatti li conosce bene. Uno “storico delle lancette”, nonché una delle firme più autorevoli del giornalismo di settore: Giampiero Negretti

Quelli che seguono sono dei ricordi. E in quanto tali possono essere carenti o imprecisi nei dettagli – perché la memoria, come le immagini fotografiche Polaroid, sbiadisce col tempo -, e a volte perfino inconsapevolmente un po’ romanzati. Quel che conta, però, è che servano a ricreare l’atmosfera di ciò che c’era una volta. E a rinverdirla.

Si era alla fine degli anni ’80 dello scorso secolo quando l’Armata Rossa attaccò la Svizzera con carri armati, aerei, paracadutisti e, paradossalmente, anche sommergibili. Lo scontro in questione però non avvenne in territorio elvetico, ma in Italia e più precisamente nel mercato dell’orologeria. A quel tempo stava esplodendo il fenomeno Swatch, che nel 1990 aveva già venduto due milioni di pezzi.

Prezzo basso (si partiva più o meno da 50mila lire e non si superavano le 100mila), buona qualità, quadranti vivaci (spesso firmati da artisti famosi) e anche la possibilità di fare buoni investimenti avevano reso lo Swatch un fenomeno di costume inarrestabile. Con alcuni esemplari che avevano raggiunto quotazioni record alle aste: il modello firmato da Kiki Picasso ad esempio aveva sfiorato i 50 milioni di lire… E questo grazie anche a un marketing aggressivo e a una furba politica distributiva. Che, allungando i tempi di attesa per il modello che si desiderava, non faceva che aumentarne la bramosia. A tal punto che si costringevano parenti e amici in trasferta all’estero a cercare gli esemplari da noi introvabili.

La concorrenza all’attacco

Un vero trionfo per l’azienda svizzera. Però, un primo, piccolo scossone l’impero Swatch lo aveva già subito dagli orologi Winchester. Fortemente reclamizzati con l’immagine di un cowboy con cappellone in testa e in mano un sigaro (che, però, sembrava un italianissimo mezzo Toscano), montavano anch’essi movimenti al quarzo, mentre la cassa metallica, rotonda, era piena di scritte e incisioni. Quel che però li caratterizzava di più era il cinturino di cuoio (con impunture tipo sella da cavallo), che a sua volta si sovrapponeva a un secondo e più largo cinturino, una specie di polsiera. Si dice che insieme alle scarpe Timberland e ai piumini Moncler, i modelli Winchester (disponibili anche da donna) costituissero il must dei “paninari” milanesi.

Ma la sfida che, almeno basandosi sul nome, veniva dal lontano Far West non durò a lungo: perché poi, grazie alle riforme di Gorbaciov, arrivarono i Russi. Da noi si sapeva ben poco dell’orologeria sovietica, e il primo modello che si diffuse riscuotendo un certo successo fu il Paketa (leggi Raketa). Un esemplare con indicazione a finestrelle di giorno e data, e un calendario stampato sul quadrante, con i 31 giorni del mese, i 7 giorni della settimana e anche l’anno. Dotato di due corone, una delle quali per regolare l’indicazione dell’anno in corso, era una via di mezzo tra un calendario a muro e un calendario annuale della mutua, perché gli anni di utilizzo del calendario erano una decina in tutto – e poi le scritte in cirillico non aiutavano certo a districarsi. Con movimento meccanico a carica manuale, il Paketa, un modello prettamente civile, fu quello che aprì la strada del mercato agli orologi militari, nati sovietici e divenuti poi russi.

I Russi, soprattutto

La storia tramanda che Jurij Gagarin, durante il suo volo in orbita, avesse al polso un modello “solo tempo” marca Poljot. Ma a diventare famosi da noi, oscurando temporaneamente l’impero Swatch sul piano del successo, furono i modelli Komandirskie realizzati dalla fabbrica Vostok. La cassa era in metallo cromato, il movimento a carica manuale (qualcuno, successivamente, anche automatico), e la ghiera zigrinata con incisi trattini e pallini rossi e neri. Di grande impatto il quadrante, su cui campeggiava una stella rossa e sotto il simbolo (o meglio il disegno del mezzo impiegato) relativo alla specialità militare cui erano dedicati: paracadutisti, caccia-bombardieri, cosmonauti, forze aeree navali, elicotteristi, carristi eccetera. I più datati avevano una scritta in cirillico che significava Made in Urss, poi aggiornata in Made in Russia.

Questi orologi russi erano affascinanti, non c’è che dire, il prezzo era contenuto (intorno alle 80-120mila lire). E uno dei loro punti di forza nello scontro con gli Swatch al quarzo era l’ecologia: infatti il distributore sottolineava che non avevano bisogno di pile e perciò non creavano il problema di doverle smaltire (!!!). Dotati di un cinturino in cuoio, venivano forniti in un astuccio, sempre di pelle, caratterizzato da un passante posteriore, in modo da poterlo agganciare alla cintura come fosse una fondina. Peccato, però, che precisione e affidabilità non fossero il loro forte: la prima oscillava tra i -20 e i + 40 secondi/giorno; la seconda era invece fortemente carente, soprattutto riguardo la corona. Quando la si estraeva per la carica o per regolare l’ora, la corona rimaneva spesso in mano a causa della rottura della debolissima e lunga tige. Non provare per credere!