Titolo (guarda un po’) di una pellicola di Vittorio de Sica. Ma anche estensione temporale dell’impegno del marchio nel mondo della settima arte. Idealmente riassunto nella partnership con la rassegna in corso in questi giorni
Confezionare una pellicola cinematografica di successo presuppone il rispetto, a monte, di un articolato decalogo codificato nel tempo. Composto, a grandi linee, di tre momenti fondamentali: la pre-produzione, la produzione, la post-produzione. Al centro di tutto, il regista. La mente pensante, il coordinatore, la figura chiamata a trasformare in azione, in poesia visiva, un copione in forma scritta. Cruciale, tanto quanto il protagonista, a sua volta al centro di quel processo creativo orchestrato dal regista stesso. Che le due figure vadano a collimare è un’eventualità che capita assai di rado. Ma, quando accade, allora l’illusione diventa perfetta.
Da oltre 80 anni Hamilton respira l’aria delle grandi produzioni cinematografiche. Perché sin dal 1932, sin dal bianco e nero, ha calcato le scene di alcune delle più celebri pellicole hollywoodiane. Dapprima ricoprendo il ruolo di semplice oggetto di scena, poi di comparsa, in seguito di co-protagonista, infine addirittura di protagonista. In tempi recenti Hamilton ha iniziato però anche a cimentarsi in una propria ideale forma di regia. Ha smesso cioè i panni di attore (che periodicamente continua comunque ancora a vestire) per trasformarsi in un certo senso in produttore, in promoter. In regista alla direzione di una sceneggiatura in costante divenire.
Hamilton ha iniziato cioè a supportare quella stessa industria del cinema che nel tempo gli ha assicurato notorietà. Dapprima rendendo tributo con gli Hamilton Behind the Camera Awards a quelle figure imprescindibili, seppur invisibili, al lavoro dietro ad una macchina da presa. Poi legandosi alle più importanti rassegne internazionali di settore in qualità di partner. Infine contribuendo a garantire un futuro al cinema di domani, chiudendo idealmente un cerchio tra passato, presente e futuro. Un percorso perfettamente riassunto all’interno del Torino Film Festival, rassegna giunta quest’anno alla 37esima edizione. La seconda supportata dalla marca.
Un festival atipico per formula ed approccio, sottotraccia dal punto dell’esposizione mediatica, ma di grande spessore a livello di contenuto. Poca forma, insomma, ma tanta sostanza. E dunque perfetto complemento dei ben più “sbrilluccicanti” e ben frequentati Nastri d’Argento di Taormina, altra kermesse custodita sotto l’ala protettrice del brand. Un appuntamento, il Torino Film Festival, incentrato sul supporto delle nuove generazioni di cineasti. Siano essi alla prima, seconda o terza esperienza alla direzione, quanto letteralmente alle prime armi. E dunque alla ricerca di un mecenate (capace di intuirne il talento a scatola chiusa) disposto a credere in loro.
Presente e futuro. Perfetto complemento di un passato certificato e celebrato. Orizzonti temporali a completamento della “sceneggiatura originale” di Hamilton. Che a Torino, sul finire di novembre 2019, ha premiato il regista inglese Brian Welsh – ed il suo lungometraggio “Beats” – con l’Hamilton Behind the Camera Award – Torino Film Festival. Ma ha soprattutto dato credito con l’Hamilton Behind the Camera Award – Talent for the Future, al futuro lavoro di Bayu Prihantoro Filemon, 35enne regista autodidatta indonesiano. Già capace di emergere nei “corti” ed atteso ora al grande salto. Talentuoso al punto da essere selezionato nella ristretta cerchia (circa una ventina su migliaia di candidature) dei giovani ammessi allo ScriptLab, laboratorio di formazione propedeutico allo sviluppo di sceneggiature di lungometraggi. Attività di punta del TorinoFilmLab, dal 2008 contorno di spessore del Torino Film Festival.