Watch Update

“Watch Update”: conclusioni

È arrivato il momento di chiudere questo primo Watch Update. Abbiamo realizzato per la prima volta un vero e proprio “supplemento tematico” ad un sito web. Alla resa dei conti Watch Update si è rivelato un lavoro molto impegnativo, ma anche ricco di soddisfazioni. Sia per la risposta da parte del pubblico degli appassionati – il nostro primo riferimento: è per loro che facciamo Il Giornale degli Orologi – sia per gli operatori, che hanno potuto confrontare le proprie idee e le proprie prospettive di lavoro.

Ringraziamo questi operatori soprattutto da parte di chi ama gli orologi. Le comunicazioni che abbiamo ricevuto dai lettori hanno dimostrato quanto comprendono la difficoltà del periodo, quanto apprezzano la trasparenza dimostrata dal settore e da chi lo rappresenta; ma hanno anche chiarito a quali condizioni ci sia disponibilità, da parte di chi può spendere, a ricominciare.

E dal momento che questo “editoriale di chiusura” deve in qualche modo tirare le somme di quanto detto nel Watch Update, cominciamo subito. Il punto focale è saper e sapersi fare le domande giuste. Perché non puoi avere una risposta giusta a una domanda sbagliata. Una delle considerazioni fondamentali da cui (ri)partire – per chi gestisce in qualunque modo le marche d’orologi – non è la banale domanda a chi vendo il lusso? Lo vendo ai “ggiovani”? Lo vendo ai ricchi e chissenefrega degli altri? No, la prima domanda è quale lusso produrre. Quello che costa di più o quello migliore?

Il Covid e le sue conseguenze sembrano aver dimostrato a un mucchio di persone che rinunciare ad alcuni tipi di lusso – in generale – non crea mica grandi problemi. Si vive comunque benissimo (si fa per dire, perché con la crisi economica conseguente alla pandemia le cose sono molto complesse) anche senza la maggior parte dei marchi del lusso che fino a ieri sembravano irrinunciabili. Più che sugli orologi stiamo facendo un discorso in generale, perché molta orologeria è legata a gruppi finanziari per i quali l’orologio è solo una perla di una corona basata essenzialmente sui marchi fashion.

E – detto fra noi – questa è una delle ragioni principali per cui in molti confinano l’orologeria solo nelle pagine della moda. È una delle sciocchezze più comuni, come a voler dire che il valore dell’orologio sia prima estetico e poi tecnico. Come del resto avviene per la comunicazione della moda, pubblicitaria o non pubblicitaria che sia. I valori estetici ci sono e contano, certo, ma non basta certo una foto su Instagram o sulla pagina di un giornale per trarre conclusioni “definitive”. E questo è uno dei regali da fashionmania indotta dalla strabordante potenza di fuoco pubblicitaria dei grandi gruppi finanziari.

Non mi occupo di fashion, ma quel poco che ho potuto toccare con mano dell’Alta Moda trovo sia un settore ricchissimo di raffinate tecniche (tessuti, cuciture, lavoro artigianale) non sempre spiegate come sarebbe giusto, appiattendo i veri valori in campo. A favore di creatori che talvolta partoriscono più effetti speciali che qualità, producendo più spettacolo che solida reputazione.

L’orologeria è diversa, vuoi per la sua lunga storia, vuoi per i valori tecnici reali che – come abbiamo visto anche in questo Watch Update – erano e restano non solo prioritari, ma anche ben distinti in fasce di prezzo ciascuna con le proprie stelle di riferimento. Chi produce orologi è buono, è una persona migliore di altre? No, ma certo il calvinismo svizzero crea regole di rispetto che contagiano anche chi calvinista non è. Si tratta di un vero e proprio linguaggio e anche di un sistema di vita facilmente riconoscibile in ogni marchio in qualche modo indipendente. E comunque rispettato, nei limiti del possibile, anche da chi fa della finanza il proprio credo.

Ciò premesso cosa chiede il pubblico dei compratori e cosa è disposta ad offrire l’orologeria, ora che il Covid, come ha sagacemente suggerito un operatore del settore, “ha messo tutti in fila dietro alla safety car”?
Non aumentare i prezzi a meno che l’aumento non sia ben giustificabile. Non aumentare la produzione se non si è in grado di conservare o migliorare la qualità degli orologi precedenti. Mettere in primo piano il prodotto, anche nella comunicazione.

Ma mettere in primo piano il prodotto è un concetto articolato che parte dall’orologio, certo, ma si allarga alla qualità dei concessionari, alla qualità dei servizi d’assistenza e – da domani – anche al commercio di orologi usati, virginalmente definiti “secondo polso”. Se compro un orologio usato non ne compro uno a caso, ma aderisco al desiderio che una specifica marca suscita in me. Nel prossimo futuro questo sarà un argomento di estrema importanza su cui si sosterrà, almeno in parte, la reputazione di un marchio.

Fermo restando che ci sono operatori affidabili e altri meno, come in ogni settore, gli approfittatori e gli speculatori superano ampiamente i limiti di sopportazione di chi compra orologi usati. Che paga soldi comunque buoni e ha diritto ad avere in cambio comunque orologi altrettanto buoni. Ci vogliono maggiori garanzie e queste garanzie devono partire dal produttore allargandosi ai concessionari. Oltretutto quello dell’usato è un mercato da cui possono derivare ottimi profitti, se – ripeto – ci sono garanzie imposte dagli stessi produttori. Garanzie cui, del resto, i molti venditori seri di orologi usati non avranno certo difficoltà ad adeguarsi.

E poi meno sponsorizzazioni personali e più iniziative generali, come il supporto all’ecologia. Regalare orologi a persone famose e spesso anche ricche fa girare non poco le scatole e il numero di chi apprezza queste operazioni sta scendendo vistosamente. Supportare iniziative più ampie viene invece compreso e condiviso. Un esempio è quello di Chopard e del suo uso di materiali e pietre preziose provenienti da attività che non sfruttano o degradano esseri umani. Si chiama fairmined e comincia a far effetto ben oltre il peso che il marchio ha sul mercato. Perché Chopard ha dimostrato che si può; e si può – oltretutto – senza aumentare i prezzi.

Il valore nuovo e fondamentale per il futuro si chiama reputazione. E la reputazione si crea con una marca in grado di far percepire che non frega in alcun modo i compratori. Il buon nome, però, non è costruito solo con buoni prodotti e un buon rapporto fra prezzo e qualità. Serve molto di più. Devono essere all’altezza del marchio, innanzitutto, i concessionari – pur se le boutique monomarca possiedono comunque una propria valenza; devono essere all’altezza del marchio i servizi d’assistenza e persino, come dicevo, il mercato dell’usato. Perché tutta la filiera è vissuta come parte integrante dell’immagine generale offerta da ciascuna marca. E la forza di una catena, non va mai dimenticato, è quella dell’anello più debole. Basta che si spezzi un anello per disprezzare l’intera catena.

Attenzione: il prestigio e la reputazione non sono valori assoluti – o comunque non solo – ma relativi ad ogni segmento di mercato, ogni segmento di prezzo. Sono considerazioni molto personali che contribuiscono ad un complesso ritratto della percezione che i compratori finali hanno di una marca. Non tutti, ovviamente, possono comprare un Patek Philippe, ma so che Patek esiste, so perché viene considerato come un faro (come del resto altri marchi del suo stesso segmento) e spesso comprendo anche per quale ragione certi marchi sono riferimenti assoluti. Bene: se non posso spendere quelle cifre voglio comunque poter comprare l’equivalente, sia pur relativo alle mie disponibilità.

Ma per conoscere e valutare correttamente servono forme più professionali di comunicazione, che si aggiungano a quanto di buono fatto sin ora. Serve una tempistica migliore relativamente alle novità – e su questo circolano battute feroci. In pratica in moltissimi si sono stancati delle cosiddette “anteprime”, ossia la presentazione di nuovi prodotti che però arriveranno sul mercato fra mesi. Fanno arrabbiare perché chi prova ad andare da un concessionario non trova le novità, pensa sia colpa del negoziante il quale a sua volta scarica la colpa sui giornalisti “che vogliono fare lo scoop”. E tutti, giocando a scaricabarile, fanno una pessima figura.

L’idea di comprare su internet non dispiace, benché l’e-commerce sia ben lontano dall’aver conquistato significative quote di mercato, in orologeria. Si preferirebbe la garanzia di un concessionario, di un intermediario vicino, in qualche modo amico, con il quale sia possibile discutere. Bisognerà trovare formule interessanti e innovative, ma la cosa avrebbe un senso soprattutto per il mercato dell’usato, consentendo di confrontare i prezzi.

Per tornare al prodotto, serve una concreta cura dimagrante per i cataloghi: meno modelli, ma sono gradite, molto gradite, le varianti di colore e materiali. È vero che potrebbe derivarne anche il dimagrimento dei fatturati, che però potrebbe essere compensato gestendo meglio il mercato dell’usato, che in tanti chiedono sia gestito direttamente dalle marche. Qualcosa del genere era avvenuto molti anni fa per le riparazioni, per il servizio d’assistenza, a proposito del quale però in molti chiedono comunque maggiore chiarezza e spiegazioni sui costi.

Le fiere di orologi. Fra gli appassionati è sorprendentemente alto il numero di persone interessate a frequentare una fiera di settore, ma non ha nessuna intenzione di saltellare dall’una all’altra, come sembra necessario oggi. Riassumo in breve la situazione oggettivamente ai limiti della farsa.

Dopo il compimento del lento suicidio della storica Baselworld (i cui attuali organizzatori sono soltanto la causa più recente di un male che ha molti altri responsabili), l’unico punto fermo era rimasto il SIHH di Ginevra, la fiera a maggioranza Richemont che di recente aveva cambiato nome in Watches & Wonders. Dopodiché Rolex, Patek Philippe, Chopard e altri marchi avevano annunciato la propria volontà di trasferirsi da Basilea a Ginevra, in concomitanza con Watches & Wonders. Tutto lasciava sperare che sarebbe stato possibile riunificare in spazi logisticamente coerenti – sia pure con entrate diverse – le due manifestazioni. Che così avrebbero potuto costituire la base da cui muovere verso una prossima riunificazione, a Ginevra, di una consistente maggioranza di produttori.

Un abbozzo di pax orologiera violata il 27 luglio dall’annuncio che Fabienne Lupo, fra l’altro organizzatrice di Watches & Wonders, aveva rassegnato le proprie dimissioni. Nessuno, nel momento in cui scrivo, ha notizie ufficiali su quel che Fabienne Lupo farà in futuro; ma a Ginevra pensavano/speravano in molti che potesse andare a dirigere un piano ampio ed ambizioso relativo all’iniziativa (ancora senza nome) di Rolex, Patek & Co. Avrebbe avuto senso. Sennonché è poi arrivato l’annuncio (un po’ sibillino) che la nuova iniziativa non accetterebbe nuove adesioni, rassegnandosi a far da appendice a Watches & Wonders. Vai a capire. 

Nel frattempo è prevista (sempre a Ginevra, ma fra poco, a fine agosto) una settimana dell’orologeria che dovrebbe costituire una versione allargata ad altri marchi (a partire da Breitling) di quella organizzata da LVMH a Dubai nello scorso gennaio. Una buona idea che oggi però rischia di sbattere la testa contro un nuovo muro creato dalla recrudescenza del Covid. E ormai è tardi per fare marcia indietro, a meno che non sia il governo elvetico ad imporlo.

Su questo si innesta l’annuncio che Baselworld, con gli stessi organizzatori delle ultime edizioni, ma con un nome diverso (HourUniverse, n.d.r.), vorrebbe riproporre l’appuntamento di Basilea; sia pure con alcune limitazioni e su una base telematica che somiglia moltissimo a quanto già messo in atto da Watches & Wonders. La notizia è stata accolta da una sostanziale indifferenza. A volte ritornano, ma non è detto che il sequel possa avere successo. Pur se tutti, ma proprio tutti, sognano una fiera di Basilea così com’era una decina d’anni fa. E a chi sghignazza ricordiamo che Baselworld può comunque contare su un buon patrimonio di orafi e gioiellieri…

Ma non finisce qui: a rendere il tutto ancor più scoppiettante di ridicolo si aggiungono gruppetti di dissidenti (alcuni con discrete possibilità di riuscita), che intendono realizzare iniziative specifiche su temi per altro già trattati da altre fiere, che quindi si moltiplicano miracolosamente. Troppa grazia, Sant’Antonio! Perché se non arriva presto un alleggerimento della situazione, la Svizzera degli orologi offrirà di sé un’immagine molto frammentata, egoista e arrogante. È un male per tutti, ma se non altro sembra che parecchi marchi stiano prendendo atto di quanto sia stupida e pericolosa la situazione. E qualcuno si spinge a ipotizzare che proprio questo sia il senso delle dimissioni di Fabienne Lupo, che magari conserverà buoni rapporti con Richemont e con Emmanuel Perrin, che l’ha sostituita a Watches & Wonders. Un passo a lato per poter lavorare all’unità.

Ma le ipotesi sono ipotesi, non fatti. Richemont non ha scoperto nessuna delle carte che intende mettere sul tavolo alla ripresa dei giochi, dopo le vacanze. E altro silenzio significativo si aggiunge da parte di Swatch Group, che da solo vale un terzo dell’orologeria svizzera. Sta di fatto che le marche di orologeria (come del resto è emerso da alcune interviste pubblicate su Watch Update) cominciano a rendersi conto che la capacità di creare un fronte di base unito è indispensabile per poter poi parlare di concorrenza. Dalla frammentazione possono solo trarre vantaggio i concorrenti dell’orologeria svizzera. Che non sono timide verginelle, ma giganti dotati di forza, cervello e soldi da spendere.

Ovviamente seguiremo con attenzione le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie (orologiere) anche dopo la chiusura di questo Watch Update.
Supplemento che fra pochi giorni troverete, totalmente reimpaginato, disponibile in formato Pdf. Il download è totalmente gratuito e senza condizioni. Se volete, comunque, potete lasciare le vostre coordinate per essere avvisati quando sarà disponibile, suddiviso in due parti: una per le interviste e una per gli approfondimenti sugli orologi. Vi sarà più facile conservare Watch Update, se vi fa piacere.

A tutti Il Giornale degli Orologi rivolge un sentito ringraziamento per la partecipazione. E per la competenza davvero ammirevole che gli appassionati hanno dimostrato nei loro commenti. Grazie. È un vero piacere essere seguiti da lettori così competenti.