Protagonisti

Michele Corvo. Da dove vengono gli orologi

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Intervista a Michele Corvo, titolare dell’omonima società che distribuisce in Italia piccoli brand di nicchia nell’alta orologeria e marchi di dimensioni maggiori, di medio livello, comunque indipendenti. Per capire come è cambiata la distribuzione nel mercato delle lancette. E di conseguenza la figura dell’importatore – anello di congiunzione fra la marca, il negoziante e il cliente finale.

Letto il titolo, tu mi dirai: ma vengono dalla fabbrica, scemo! Da dove vuoi che vengano, gli orologi? Vero. Ma gli orologi non basta produrli. Devi anche venderli. E per venderli al compratore finale devi passare per una rete commerciale, un sistema che distribuisce gli orologi facendoli arrivare ai negozi. Quelli giusti, si spera. Dal negoziante, infine, si passa all’ultimo metro, quello che separa il negoziante stesso dal compratore finale. Che per me – questione personale – non è chi vuole un orologio per poterci speculare su, rivendendolo a prezzo maggiorato. No: per me il compratore finale continua a essere chi l’orologio se lo mette al polso.

In questa ottica, anche i nostri articoli, soprattutto i “dietro le quinte”, hanno sempre un punto di vista ben chiaro: quel che avviene, in qualunque fase della catena produttiva e commerciale, è negli interessi del compratore finale? Non voglio dire che siamo paladini dei compratori: sarebbe esagerato. È un punto di vista e nient’altro. Torneremo sull’argomento anche perché arrivano molte richieste di capire meglio, fra l’altro, come si forma il prezzo di un orologio. Da molti ritenuto eccessivo. Dal momento che in questo settore – come dimostrano le stesse interviste che pubblichiamo – di segreti ce ne sono tutto sommato molto pochi, spiegare un po’ meglio non fa male a nessuno.

Due parole sulla distribuzione

Una volta c’erano gli “importatori”. Persone o aziende che compravano, di solito in esclusiva per il proprio Paese, gli orologi che poi rivendevano ai negozianti. Compravano a proprio rischio. Non c’era alcun “diritto di reso” di quanto rimaneva invenduto. E quindi non c’era diritto di reso nemmeno per quanto riguardava i negozianti. La grandezza del mercato italiano (che è arrivato ad essere il secondo mercato mondiale per l’orologeria svizzera) nasce da un pugno di uomini che hanno rischiato, soprattutto nel Dopoguerra, il tutto per tutto. Per capirci: Franco Locatelli, che aveva l’incarico di vendere gli orologi Rolex, tornò dal primo giro di vendite disperato perché nessuno voleva “quel pataccone ingombrante”, come racconta una leggenda.

Se oggi la situazione è ben diversa lo si deve alla caparbietà degli importatori. I distributori hanno spesso “fatto la marca” oltre quel che comunemente si crede. Giorgio Corvo, importatore di Jaeger-LeCoultre, reinventò – letteralmente – il Reverso, orologio che non era più in catalogo, rivoluzionando la marca. E proprio con suo figlio Michele parliamo di distribuzione fra passato, presente e futuro. Tenendo a mente che nel frattempo i cambiamenti sono stati macroscopici. Tutte le aziende svizzere proprietarie di più marchi hanno preso direttamente in mano le redini della distribuzione internazionale. Hanno creato filiali direttamente controllate, Paese per Paese, e di fatto hanno eliminato la figura dell’importatore. Il che ha portato, come sempre, vantaggi e svantaggi: non esistono soluzioni univoche, perfette.

Michele Corvo comprende che per conservare la figura dell’importatore (quello che sa essere un buon anello di congiunzione tra il marchio, il negoziante e persino il compratore finale) deve inventare qualcosa di diverso. E la fa partendo da un passato che modifica e adatta, modernizzandolo, ai giorni nostri. Scegliendo di distribuire marchi piccolissimi, piccoli e un po’ più grandicelli (Bell & Ross, Bovet 1822, F.P. Journe, H. Moser & Cie, MB&F, Ressence, Urwerk e i gioielli Messika) con un itinerario che si spinge alla boutique milanese GMT (Great Masters of Time), nella quale realizzare anche eventi culturali e incontri diretti fra i creatori degli orologi e i compratori finali. Con il supporto di un gruppo di persone solide ed efficienti, cui si aggiungono i due figli di Michele, Jacopo e Mattia. Una terza generazione che introduce l’attualità telematica, in grado di ampliare ulteriormente il raggio d’azione anche a livello internazionale.

Ecco: è questa, credo, la giusta premessa per capire il reale significato della chiacchierata con Michele Corvo.

Quattro chiacchiere con Michele Corvo

Beh, dev’essere una bella soddisfazione, conoscendo la vostra storia, vedere che il ritorno a una distribuzione di tipo “abbastanza tradizionale”, tradotta in termini contemporanei, funziona.

Michele Corvo: Sì, anche se la distribuzione è cambiata molto rispetto a qualche anno fa. Sicuramente c’è una grande ricerca per identificare quale sia il punto vendita più corretto per poter vendere determinati prodotti. Quindi non solo l’importanza del negozio, ma anche del tipo di clientela e delle marche che possono fare da contorno a quelle che noi proponiamo. È cambiato il modo di vendere il prodotto, si è molto più rarefatta la distribuzione, però noi siamo molto contenti dei risultati che stiamo ottenendo.

Ed è un metodo di lavoro molto più “sartorializzato” rispetto ad altri tipi di distribuzione che tendono ad essere più “di massa” anche in ambiti di alto livello…

Michele Corvo: C’è sicuramente un modo diverso di distribuire il prodotto sul mercato. Almeno rispetto a quelli che sono i marchi promossi dai grandi gruppi, che chiedono una distribuzione molto più ampia.

Mentre venivo a questo incontro mi chiedevo se tuo padre Giorgio potrebbe riconoscersi in questi cambiamenti.

Michele Corvo: Beh, di fronte a quella che certe volte appare più una mutazione che un mutamento lui rabbrividirebbe. Però secondo me il discorso della nostra distribuzione così selettiva, ricercata, potrebbe farlo sorridere.

Perché in parte è anche una bella vendetta, diciamocelo francamente…

Michele Corvo: Più che una vendetta direi che è una gratificazione per il lavoro di ricerca, di scelta di alcuni marchi rispetto ad altri. Le marche piccole come quelle che trattiamo hanno esigenze specifiche, ben diverse.

I tuoi figli hanno portato veramente una ventata di gioventù. Un bel contributo.

Michele Corvo: Assolutamente sì, hanno modificato il mio modo di vedere le cose, sono saliti a un livello che per me era irraggiungibile, onestamente. Sono stati molto bravi, sia Jacopo che Mattia, nella ricerca dei brand, nella gestione del negozio.

Tu hai reagito bene fin dall’inizio o hai frenato la loro ricerca di cambiamento?

Michele Corvo: Mah, io ho sempre espresso le mie idee. Però li ho anche ascoltati molto. Rispetto all’atteggiamento di mio padre, che nei miei confronti era molto direttivo, ho sempre cercato di essere possibilista anche quando non ero immediatamente convinto. Mio padre apparteneva alla scuola del “questa cosa io l’ho sempre fatta così e quindi si deve fare così”. Io, proprio in virtù di questa esperienza, ho cercato di essere molto più aperto con i miei figli. Li ho seguiti. Ho cercato di far loro capire le cose dal mio punto di vista, ma li ho seguiti.

Immagino che continuerete a mantenere questa attenzione verso i piccoli marchi di grande lusso, cultura e rarefazione. Un’attenzione che cambia totalmente il pubblico delle persone che vi seguono.

Michele Corvo: Diciamo che all’inizio – la nostra ricerca è iniziata nel 2004, prima con Journe poi con Max Büsser – abbiamo sempre cercato marchi che fossero interessanti non solo per il prodotto, ma per la persona che c’era dietro il prodotto e per la filosofia. Dopodiché, una volta fatto questo tipo di scelta, è chiaro che controlliamo il mercato. Guardiamo quali possono essere le nuove opportunità che possono arrivare da questi piccoli brand di nicchia con produzioni super-artigianali molto limitate.

Questo implica stare attenti anche che esista per esempio una capacità di riparare gli orologi. Certe volte è il tallone d’Achille dei “piccoli”.

Michele Corvo: Assolutamente sì. Il compratore finale deve poter avere fiducia in certi prodotti. E in questo senso cerchiamo sempre orologi che non creino problemi. Se l’orologio non funziona si rischia di creare appunto problemi di fiducia, cosa che ci è capitata in passato con qualche marca. L’affidabilità è un elemento fondamentale perché se uno spende una certa cifra per un orologio vuole che quel prodotto funzioni e, se per caso non funziona, che sia riparabile.

È una cosa che abbiamo imparato all’inizio, quando ancora la clientela italiana non era poi così interessata al tipo di prodotto che proponevamo. Ma abbiamo avuto un bel riscontro da parte della clientela internazionale, già abituata a comprare un orologio non per fare un investimento, ma fondamentalmente per libera scelta personale.

Man mano che siamo riusciti ad offrire un buon servizio complessivo, ci siamo resi conto che gradualmente una buona parte della clientela italiana abituata ai grandi marchi tradizionali ha cominciato ad interessarsi sempre di più, anche in termini di spesa, di acquisto, ai piccoli marchi di nicchia che noi gestiamo sul mercato italiano. Ma bisogna offrire un servizio soddisfacente, in grado di dare sicurezze.

E poi avete ampliato la vostra gamma di offerte con marche di prezzo non poi così elevato, ma sempre di buon gusto.

Michele Corvo: Assolutamente sì, all’interno del negozio GMT cerchiamo di proporre marchi magari non molto costosi, ma di grande qualità e comunque di manifattura. Non legati ai grandi gruppi, ma indipendenti.

È quindi sempre un discorso diretto di responsabilità assunte nei confronti del compratore finale. Diverso dal rapporto talvolta spersonalizzato, quasi inevitabilmente, con i grossi gruppi, per i quali oltre tutto l’orologeria non è più nemmeno così importante?

Michele Corvo: Diciamo che quel che noi scegliamo, lo scegliamo proprio in base al rapporto qualità/prezzo e all’indipendenza dai grandi gruppi…

Parliamo del futuro di alcuni di questi piccoli marchi. Da un lato vedo realtà come quella di François-Paul Journe. Che non sembra interessato ad aumentare la produzione. All’ultima fiera di Basilea l’ho incontrato che litigava con un cliente finale, che lo aveva riconosciuto in strada e gli chiedeva un orologio “di base”, meno costoso. Journe gli ha risposto di andare a comprarsi un Rolex: «Farà felice se stesso, Rolex e soprattutto me!». Però ci sono anche marchi che stanno riuscendo a crescere in maniera molto armonica, pur rimanendo sempre attenti alla qualità di quel che producono. L’economia di scala diventa sempre più importante, insomma.

Michele Corvo: Sicuramente ci sono piccoli brand che hanno capito come muoversi bene sul mercato anche da un punto di vista commerciale. La cosa fondamentale è evitare sconti. Gli orologi devono uscire a prezzo pieno anche perché parliamo di piccoli produttori – giusto qualche centinaio di esemplari per il mondo all’anno. Sono prodotti estremamente sofisticati dove c’è una grande ricerca, una grande interattività, e quindi giustamente hanno una crescita commerciale che non è esponenziale rispetto al prestigio. Per loro il giusto guadagno deve essere una certezza, non una variabile. Rischierebbero moltissimo ed è già accaduto più volte che nomi di grandissimo valore tecnico si siano trovati nei guai proprio per problemi economici.

A noi, marchi e distributori, serve assolutamente una trasparenza impeccabile proprio perché legata a produzioni quantitativamente limitatissime. In questo senso è fondamentale la collaborazione con negozianti che la pensino allo stesso modo. Se il negoziante usa il mercato parallelo, sia pure per propri problemi di sopravvivenza, allora non è un nostro cliente né un cliente di questi brand. Alla fine, se ci pensi bene, dare certezza al compratore finale è sempre il metodo migliore per creare un rapporto di soddisfazione reciproca. Ieri come oggi.