La digital reputation siamo noi. Fermati, non scappare: qui non troverai un corso accelerato su questo fattore chiave e strategico. Ma la reputazione, digitale o meno, ti interessa da vicino. Perché in realtà ci hanno fregato, ci hanno venduto per nuovo ciò che da millenni conosciamo, curiamo e coccoliamo. Noi stessi. La reputazione siamo noi, ovvero come appariamo agli occhi degli altri: non solo nell’aspetto, magari celato dietro un velo di trucco o un sorriso di convenienza, ma anche i nostri nostri valori, confermati o meno dal nostro modo di agire. Svolgiamo un ruolo passivo, veniamo giudicati, e sempre più spesso un ruolo attivo: siamo i giudici della reputazione altrui, anche quella che i grandi marchi sfoggiano con orgoglio. Gliela costruiamo noi, con le nostre bizze e i nostri umori, e gliela doniamo. Già, perché un nostro giudizio da cliente può regalare notti insonni ai dirigenti di multinazionali al di là dell’oceano.
Anche gli orologi sul tetto del mondo
Una, nessuna e centomila. Povero Luigi Pirandello, tirato in ballo per parlare della reputazione solo perché non è una o univoca, perché bella o brutta. Esiste sempre, ed è democratica: ognuno ha la sua. Prendiamo i primi tre classificati nel 2020 (fonte Reptrak): la danese Lego è al 1° posto (era al 2° nel 2019), seguita dall’americana Walt Disney (3° nel 2019) e dalla svizzera Rolex (1° nel 2019). Tre marchi che amano scambiarsi le posizioni ad anni alterni. Gli italiani si devono accontentare della medaglia di legno con Ferrari che si colloca al 4° posto. Tutti li conoscono, tutti sanno cosa fanno, tutti ne parlano. E globalmente sono i migliori.
Ma basta cambiare segmento di popolazione considerata per variare le loro posizioni (una scorsa a un’altra classifica lo dimostra RankingTheBrands). Prendiamo un adulto afroamericano di 20-30 anni che nei giorni scorsi è sceso nelle strade delle città Usa per manifestare “Black Lives Matter”. Al primo posto metterebbe Nike. Sì, quella delle scarpe, dello Swoosh (il logo a forma di boomerang allungato) e del claim “Just do it”. Perché Nike, in una campagna di un paio di anni fa, ha usato il volto di Colin Kaepernick, l’ex quaterback che si era inginocchiato durante l’inno nazionale prima di una partita, per trasmettere i propri valori. Riassunti nello slogan: “Credi in qualcosa, anche se significa sacrificare tutto”. Un gesto emblematico, un messaggio fortissimo che oggi guida la protesta antiTrump. E la scalata reputazionale della marca.
La boutique dell’orologeria
Per entrare nell’empireo della reputazione, la dimensione – aziendale – non conta. La potenza economica nemmeno. Lo dimostra il “piccolo” mondo dell’orologeria che si mette agevolmente alle spalle colossi mondiali che fatturano quanto il Pil di un piccolo Stato. Chi indossa un Patek Philippe, un Audemars Piguet, un Vacheron Constantin e a scendere nel prezzo fino a uno Swatch, veste un’esperienza totalizzante. Non ha al polso un insieme di meccanismi, ma un complesso sistema in equilibrio tra altissima tecnologia e maestria artigianale. Un insieme alchemico di materiali figli della ricerca aerospaziale e di altri, preziosi, con millenni di storia. Un sapiente connubio tra design e stile.
Ma soprattutto sta vivendo un’esperienza unica – da un certo punto di vista – simile a quando ci si reca da uno sarto e gli si commissione un abito tailor made. Qualcosa che veste alla perfezione sulla propria figura, dal tessuto alla foggia. Immergetevi mentalmente in questo percorso e poi leggete la definizione che Jeffrey – Jeff per gli amici del web – Preston Bezos, patron di Amazon, dà di reputazione: «Oggi il brand non è più ciò che dice di essere, ma è quello che dicono nella stanza quando il brand esce dalla porta». Voilà, se nell’acquisto avete avuto ciò che cercavate (status symbol compreso), al prezzo che ritenete giusto, con una cura nella scelta e un’assistenza post vendita attenta ad ogni minimo dettaglio… come potrete parlare di quel brand? E questo è il segreto dell’orologeria.
Il sentiment catturato
Un passo indietro è necessario. Torniamo nella stanza, immaginando che dentro ci siano i vostri parenti e colleghi che parlano liberamente di voi. Ma voi, brand, siete fuori. Quanto paghereste per sapere quello che dicono? Così i grandi gruppi spendono miliardi «per scandagliare il web per raccogliere il sentiment dei clienti. Attraverso software monitorano le conversazioni pubbliche che si tengono attorno alla marca e ne interpretano il giudizio», spiega Paolo Guaitani, partner e formatore di The Vortex, società di consulenza strategica digitale. «In altre parole “ascoltano” le persone che parlano tra di loro di un prodotto e cercano di capire come ne parlano».
Esiste quindi un Hal 9001 in un bunker di una mega-azienda che quotidianamente legge ciò che scriviamo e lo setaccia alla ricerca di informazioni. Un Grande fratello di orwelliana memoria a cui, grazie alla nostra loquacità sui social, rendiamo la vita semplice. Non vi torna alla mente il disegno di Guareschi con il fumetto che recita: «Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no!»? E un certo senso di inquietudine resta nell’aria.
La macchina del passaparola
Non bastano i miliardi a evitare il corto circuito. Amazon voleva collocarsi nel mondo come the “Earth’s biggest bookstore”, ovvero “La libreria più grande della terra”, ma oggi consideriamo il sito per gli affari che ci fa fare. La nostra considerazione di Amazon «è un luogo dove comprare a meno… e te lo portano persino a casa». Non che gli vada male – anzi. Ma ciò dimostra che è il giudizio del cliente a vincere.
Una volta le nostre opinioni avevano un effetto su una ristretta cerchia di amici. Oggi, potenzialmente, la nostra esperienza può condizionare migliaia di utenti, attraverso un passaparola digitale. «Peccato però», commenta Guaitani, «che esista una maggioranza silenziosa e soddisfatta che si esprime poco, e una minoranza che, mossa dall’emozione spesso negativa, si esprima fin troppo. Questo modifica la reale percezione che si ha di un prodotto».
Vengo anch’io, no tu no
Ma quindi “basta la parola” per “scatenare l’inferno”? (Mi spiace, non si vince nulla se avete indovinato prodotto e film, troppo facile!). No, per essere al top, per essere memorabili, perché un marchio resti impresso nell’immaginario collettivo e personale, serve un mix di valori, qualità, innovazione ed emozione. La marca deve mantenere ciò che promette e soprattutto – se si tratta di un brand di lusso – deve soddisfare l’esigenza aspirazionale del suo cliente. Chi lo possiede deve pensare di aver fatto il salto, di essere entrato in un club esclusivo.
Ed è così da millenni. Pensate al fascino esotico di Cleopatra contesa sulle due sponde del Mediterraneo da alcuni Tolomeo, Marco Aurelio e Cesare. Non era solo la conquista di una donna: lei rappresentava la conquista di uno degli imperi millenari, più potenti del tempo. E la fascinazione di quel mondo resiste ancora dopo migliaia di anni. Negli uffici del marketing moderni si parlerebbe di una reputation persistente nel tempo grazie a uno storytelling efficace nei secoli. Lasciamo a Pietro Aretino, toscanaccio dalla lingua appuntita come una spada, dirla più chiara: «Le imprese si governano con la riputazione». Ieri, oggi e domani.
La reputazione, passaparola a contagio
A dimostrare quanto vale il passaparola basta un “Fantozzi” qualunque per farci dire, in coro: «La Corazzata Potemkin è una c…». E la reputazione del film del 1925 del regista Sergej Michajlovič Ėjzenštejn è segnata: per alcune generazioni di italiani resterà «una cagata pazzesca». E sì, perché i giudizi sono contagiosi e spesso sono frutto di una valutazione affrettata, volubile ed emotiva.
Quanto impiegate a farvi un’idea di una nuova conoscenza? La prima impressione è un batter di ciglia. La scienza dice che per effettuare questa attenta valutazione impieghiamo da 33 a 100 millisecondi. Retaggio ancestrale figlio del “fermati o scappa”, o se preferite “amico o nemico”. Se invece di una persona dobbiamo giudicare un oggetto, il tempo si allunga a qualche secondo. O a qualche ora, se il mondo valoriale ed esperienziale coincide con quello che desideriamo.
Un orologio è uno strumento bello e funzionale, talvolta curioso, ma niente di più. Un Rolex (e uso questo esempio perché il brand è in cima alla classifica della reputazione) ha qualcosa di più, non in quanto oggetto, ma in quanto portatore di informazioni aggiuntive che il nostro cervello pesca dalla sua esperienza. Stimoli emozionali che uno sguardo al logo coronato ci provoca. Ecco che si scatena una tempesta di collegamenti neuronali con pensieri che saltano dalla pubblicità in cui viene indossato da un campione al ricordo di una vetrina di una via di lusso, per terminare nell’emozione di averlo indossato in una particolare situazione o di volerlo fare appena possibile.
Ecco il quid, la reputazione è infine l’aspirazione a soddisfare i nostri sogni. Non ci servono recensioni che, come spiega Guaitani, «influenzano il 78 per cento degli acquisti. E la maggior parte degli italiani considerano al pari del consiglio di un amico». Il top comunica con il nostro mondo interiore. Non dobbiamo leggere, lo sappiamo già cosa rappresenta quel brand. La sua reputazione ci ha già contagiato.