Abbiamo visto che i meriti storici di Cartier, in orologeria, non si limitano ad un “semplice” disegno del primo vero orologio da polso. Cartier possedeva un proprio laboratorio ricco di tecnici in grado di realizzare orologi, anche da tavolo, di notevole complicazione – come altre grandi manifatture. E abbiamo visto che per l’orologeria da polso, di cui Cartier era pioniere, si avvaleva di un grande tecnico (Edmond Jaeger) capace di progettare un movimento di spessore eccezionalmente contenuto. Proprio come altre grandi manifatture si avvalevano di direttori tecnici all’altezza del proprio nome.
Edmond Jaeger riuscì a farsi produrre da LeCoultre questo movimento. Quella stessa LeCoultre che produceva (sbozzi o movimenti finiti che fossero) per nomi come Audemars Piguet e Patek Philippe. Siamo ben oltre l’aver inventato il vero orologio da polso. Infine abbiamo visto come Cartier, diversificando la produzione d’orologi in due direzioni (chiamiamole Les Must e Collection Privé, sebbene i nomi siano cambiati nel tempo) sia arrivata ad essere il secondo produttore svizzero, dopo Rolex. Già questo dovrebbe essere d’aiuto per comprendere come Cartier sia riuscita a conciliare le proprie due personalità (gioielliere ed orologiaio) senza problemi di bipolarismo.
E nella puntata scorsa siamo arrivati a Bernard Fornas e al suo desiderio di possedere una manifattura che consentisse a Cartier l’indipendenza – o quasi – da fornitori esterni. Il problema è che questa manifattura doveva seguire il doppio percorso di Cartier. Essere cioè in grado di produrre movimenti “di base”, di qualità, ma anche di prezzo non troppo elevato; e al tempo stesso di alimentare la collezione d’alta orologeria con movimenti raffinatissimi e ricchi di complicazioni innovative. E qui la genialità e – lasciatemelo dire – le palle d’acciaio di Bernard Fornas fanno il capolavoro. Perché chiama, a dirigere il reparto tecnico, Carol Forestier-Kasapi. Una donna. Una donna nel misogino mondo dell’orologeria? Sì, una donna. Di straordinaria qualità ed esperienza tecnica.
No, una donna no, siamo seri
Ho conosciuto Carole Forestier tanti anni fa. Lavorava nel laboratorio di Renaud & Papi, appartamento al terzo piano di un modesto palazzo nel centro di La Chaux-de-Fonds. Qualcuno mi aveva detto di andare a visitare quella tana di giovani geni dell’orologeria, che avevano da poco aperto (1986) un proprio laboratorio di progettazione. E in quel momento stavano lavorando al calendario perpetuo che poi verrà utilizzato da Jaeger-LeCoultre e soprattutto da IWC. Quello con l’indicazione digitale dell’anno.
Carole, parigina, è figlia e sorella di orologiai. La sua passione l’ha portata a frequentare la scuola d’orologeria di La Chaux-de-Fonds (la migliore, secondo gli svizzeri); e poi il corso di perfezionamento del Professor Antoine Simonin, a Neuchâtel, una sorta di super Master cui hanno accesso solo i migliori. Dopodiché comincia a lavorare con Giulio Papi e Dominique Renaud, straordinari talenti dell’orologeria. Nel 1992 il loro laboratorio viene acquistato (al 52 per cento) da Audemars Piguet, lasciando però la libertà di lavorare anche per altri marchi. Carole Forestier-Kasapi acquisisce meriti sempre più grandi. È suo il movimento Elite che Zenith usa ancor oggi e c’è il suo zampino in altri movimenti illustri.
Un uomo con le stesse qualità avrebbe già fondato una propria marca, ma se sei donna non se ne parla. Quando ho cominciato ad occuparmi d’orologeria, parliamo di oltre trent’anni fa, alle donne erano riservati fondamentalmente due soli lavori. La lucidatura manuale dei pezzi meno critici e il controllo finale della qualità («hanno occhio e cattiveria per scovare i difetti», diceva il direttore di una fabbrica), ma null’altro. Piano piano si è scoperto che le donne erano in grado di fare tutto quel che facevano gli uomini, ma sempre in un clima di dubbio sulla loro capacità di progettare movimenti. I tanti che considerano Cartier “solo un gioielliere” pensate avrebbero mai comprato un orologio artigianale firmato Carole Forestier?
Vent’anni di Carole
Carole Forestier-Kasapi entra in Cartier nel 1999 – dopo aver diretto per quattro anni il reparto tecnico di Audemars Piguet Renaud & Papi – e vi rimane fino allo scorso anno. Influenza profondamente non soltanto Cartier (dove ha fondato una vera e propria scuola di decine d’ingegneri che raccoglieranno l’eredità del suo passaggio), ma l’intera orologeria svizzera. Il suo “manifesto” è il movimento “scheletrato” del Santos 100 presentato in anteprima nel 2008. Quello che trovate in apertura di questo articolo.
In pratica, Carole crea un classico quadrante Cartier nel quale le cifre romane fanno da platina e ponti, “piegando” quindi la parte meccanica del movimento ad esigenze estetiche. Prima di lei solo Vincent Calabrese (con il Golden Bridge per Corum) aveva fatto qualcosa di più o meno simile. Ma in questo caso sia il marchio Cartier, sia la costruzione particolarmente robusta cambiano totalmente le carte in tavola. La concezione di scheletratura introdotta da Carole Forestier-Kasapi per Cartier farà scuola al punto che ormai la visione precedente sembra essere praticamente scomparsa dai cataloghi.
Il Cartier Santos 100 apre nuove strade che tutti i produttori imboccano con grande entusiasmo e grandi risultati. Ci sarà un prima e un dopo il Santos 100. Ancora una volta Cartier segna la storia dell’orologeria e ancora una volta (dopo il movimento ultrapiatto di Edmond Jaeger) lo fa con un movimento, il calibro 9611 MC, meccanico a carica manuale, 138 componenti, con doppio bariletto e autonomia di 72 ore. Cartier è “solo un gioielliere”? Balle!
Come tutte le persone che pensano in grande, Carole Forestier-Kasapi non ha soltanto saputo aprire la manifattura Cartier, ma anche trasformarla in un campus per giovani ingegneri orologiai. Per un paio di volte è riuscita a creare incontri fra il proprio gruppo di lavoro (nel 2012 era composto da 35 tecnici progettisti, ciascuno specializzato in una specifica parte dell’orologio) e i giornalisti più competenti. Memorabile la tavola rotonda del 2012, appunto, quando venne presentato un incredibile concept watch – ID Two – con cassa in zaffiro a tenuta stagna per far lavorare il movimento sottovuoto. Per non parlare di un tourbillon amagnetico che non aveva bisogno di regolazione né di lubrificazione.
Io ero lì, a bocca aperta, a guardare un futuro quasi impossibile da industrializzare, ma reale, concreto. Mentre Carole e il suo team mostravano i propri orologi, perfettamente funzionanti, e rispondevano a qualunque domanda. Un campus ideale. Un campus Cartier. “Solo un gioielliere”? Ma non fatemi ridere. Avrà anche cambiato casa, Carole, ma quel che ha fatto nei suoi vent’anni in Cartier è destinato a rimanere. Il patrimonio da lei creato non ha solo un valore tecnico, ma anche umano: ha forgiato i tecnici del futuro dando loro, oltretutto, un modo di procedere (uno specialista di scappamenti, uno di treni del tempo, uno di bariletti, e così via, che alla fine si riuniscono intorno a un tavolo e creano movimenti) destinato, se Cartier vuole, a durare molto, molto a lungo.
Scriveva, Bernard Fornas, in quel 2012: “Le soluzioni tecnologiche e le scommesse creative proposte dal Cartier ID Two verranno applicate agli orologi Cartier solo nel 2020 o 2030, quando cioè i nostri orologiai saranno già impegnati a concepire i nuovi orologi del 2040 e 2050. Questo perché la Manifattura Cartier non ha mai smesso di far progredire l’arte orologiera da quando ha inventato l’orologio da polso nel 1904. Sono convinto che Louis Cartier sarebbe stato entusiasta del Cartier ID Two”.
A qualcuno non basta?
Il vero problema è che quando si parla degli orologi Cartier ci si ferma in superficie. Ci si ferma ai modelli più facili, più vendibili. Relativamente meno costosi e al tempo stesso inequivocabilmente Cartier, declinati in varianti fantasiose delle quali c’è più da dire sul versante estetico che su quello tecnico. Credo sia anche colpa di noi giornalisti, che talvolta ci pieghiamo con troppa facilità per dare ai lettori quel che i lettori vogliono. O credono di volere. Del resto, lo stesso sito di Cartier sembra dedicare poco spazio agli orologi complicati, alle notevolissime specialità tecniche che la Maison propone.
Eppure ogni anno Cartier sforna una impressionante quantità di orologi della Collection Privé (oggi Cartier Privé) complicazioni sempre originali e spesso proposte a prezzi concorrenziali rispetto a quelli degli specialisti. Leggo sul tuo viso un’aria dubbiosa, come volessi intortarti. E per te, proprio per te, ho preparato una rapida carrellata dei modelli che più mi hanno impressionato. Uno per ognuno degli ultimi dieci anni, da quando è stata aperta la manifattura Cartier. Troverai la descrizione nelle didascalie, prese così come si trovano nelle cartelle stampa.
Devo specificare che ho dovuto fare il “gioco della torre” per scegliere un solo modello a rappresentare ogni anno. E già quello sarebbe sufficiente a strappare l’applauso. Ma ce ne sarebbero molti altri, tanti altri ancora (non meno di cinque o sei l’anno) custoditi gelosamente dai collezionisti più astuti. Quelli che non si fanno ingabolare dalla pubblicità o dalle pagine di moda dei giornali più glamour. Giornali che fanno un ottimo lavoro per la Cartier che “immediata”, ma non riescono a comprendere la seconda personalità di un marchio in grado di essere tecnico, maledettamente tecnico.
Al di là dei gusti personali potremmo metterla così: forse Cartier è un produttore d’alta orologeria che gioca a diffondere fra un pubblico più vasto anche la componente del proprio, straordinario stile. Ma chi non si ferma al pur intenso piacere estetico può trovare pane per il proprio appetito di tecnica sopraffina. Andare a parlare con un concessionario può essere una esperienza illuminante, sotto questo punto di vista, credetemi. E un’esperienza culturale che renderà giustizia a Cartier e alla sua “Collezione privata”. Solo un gioielliere? Ma smettiamola, una buona volta, con le sciocchezze.