È inutile farla lunga: l’orologeria svizzera è in crisi. Una crisi molto strana, però. La pandemia ha colpito duro nel 2020, con risultati effettivi molto peggiori di quanto dicono le statistiche ufficiali della Fhs – un calo del 21,8 per cento delle esportazioni, vistosamente mitigato dall’aumento del 20 per cento per principale mercato, la Cina, che da sola vale un quinto dei 30 principali mercati. E anche se il 2021, nel primo semestre, è tornato ai livelli del 2019, rimane un buco di grosse dimensioni per le batoste prese nel 2020. Ma non basta: ci sono altri due notevoli problemi da affrontare.
Il primo è economico, manco a dirlo. Il ritorno ai livelli precedenti non è organico. Mentre Cina e Stati Uniti crescono vivacemente (ma attenzione: nell’aumento della Cina va conteggiato il continuo calo di Hong Kong), zoppicano ancora (sono ancora diversamente deambulanti?) i mercati europei, in continuo calo. Un andamento a macchia di leopardo che, per altro, riguarda anche i segmenti di mercato: tira bene il lusso vero, stenta il resto.
Il secondo problema sta nella paura del futuro. Per essere più chiari: paura di non essere attraenti per i giovani. Parliamone.
L’orologeria e la caccia ai giovani
Se c’è una cosa che la crisi della pandemia ha messo in chiaro è il rapido, velocissimo cambiamento dei tempi. Internet, in particolare. Molti pensavano che fosse sufficiente creare grandi negozi virtuali per raggiungere nuovi tipi di pubblico. Non è stato così.
Se qualcosa di positivo è accaduto per le fasce di prezzo più accessibili – che però sono quelle che maggiormente soffrono la concorrenza degli smartwatch –, su in vetta poco o nulla si è mosso. Prima o poi potrà accadere, prima o poi dovrà accadere (è il progresso, bellezza, e non puoi fermarlo); ma sta di fatto che le marche “di lusso” su internet non sembrano attrarre più di tanto i giovani.
E questo ha scatenato il terrore. Specialmente nei grandi gruppi finanziari, quelli che prosperano vendendo azioni in salita, più che orologi. Senza per ora scendere in dettagli, sta di fatto che anche i giovani preferiscono comprare un orologio costoso nei negozi tradizionali. E la comunicazione? Come si parla ai giovani?
L’orologeria e i social
La risposta, consigliano gli esperti, sta nei social. Digitale a palla. Ma gli esperti che lavorano con le multinazionali sanno tutto dei mercati di massa e non abbastanza di quelli di nicchia come appunto l’orologeria. C’è poco da pescare, poco da guadagnare. E però tutti si sono comunque buttati sui social, ma con effetti scarsi se non nello scatenare gli haters, che se la prendono con orologi che la maggior parte di noi non potrà mai comprare. Bisognerà imparare che i like e i follower non bastano a misurare l’efficacia di un media digitale.
Faccio un esempio paradossale, per esser chiaro. Se io divento campione mondiale di rutti e pubblico il tutto sui social con un percorso ben articolato e gestito, ho buone possibilità di tirar su milioni di like e follower. Ma associare il nome di una marca di lusso al campione mondiale di rutti è utile per vendere orologi di costo elevato? Sarebbe bene che gli addetti alla comunicazione delle Case comprendessero meglio che sul web non trovi solo gente stupida. E che, proprio come su altri media, è possibile scegliere i propri interlocutori.
La continua crisi della carta stampata, poi, sembra confondere ancora di più chi, nei produttori d’orologi, ha in carico la responsabilità della comunicazione. La risposta (lo abbiamo già detto qui) sarebbe semplice: cercare la qualità e non la quantità. Come del resto l’orologeria ha sempre fatto al momento di produrre.
L’orologeria e la crisi: quella delle marche “pure”
Il termine “puro” vuole semplicemente indicare i marchi e i gruppi che hanno la produzione e la vendita d’orologi come core business, come centro nevralgico della propria attività.
Bene: gli orologiai “puri” sanno bene come le crisi, indipendentemente dalla pandemia attuale, siano un male ricorrente con frequenza periodica. La miglior difesa sta nel tenere da parte una forte, talvolta fortissima liquidità. Pochi debiti con le banche e molto contante in cascina. Perché? Innanzitutto per non avere debiti con creditori inflessibili e pronti a rilevare ogni marca in difficoltà. E poi per poter conservare il più a lungo possibile e il più integro possibile il proprio patrimonio di dipendenti.
Buon cuore? Sì, certo, l’etica protestante – che non perdona gli errori – c’entra molto. Non dimentichiamo che la maggior parte degli orologiai svizzeri discendono in qualche modo dagli Ugonotti cacciati dalla Francia. Ma a parte il rispetto per persone che perderebbero il lavoro (in Svizzera licenziare è molto più facile che in Italia), c’è la paura di disperdere il patrimonio di professionalità, il patrimonio di conoscenze, di “segreti” tecnici che rende ogni marca lo specchio di quanti lavorano per lei. Perché è sempre la marca, al centro dell’attività di chi vive solo d’orologeria. A qualunque livello di prezzo.
L’orologeria e la crisi: quella dei gruppi finanziari
Diverso è il caso dei marchi d’orologeria che appartengono ai gruppi finanziari. LVMH e Kering traggono dall’orologeria solo una piccola parte dei propri ricavi. E gli analisti, che orientano gli investitori, sono generalmente poco eccitati da questi piccoli segmenti di mercato. Non ostante questo, i gruppi finanziari hanno imparato che se vogliono far prosperare le marche presenti nel loro portafoglio devono necessariamente avere a propria diposizione almeno un Uomo degli Orologi. Ossia un dirigente specialista, qualcuno che conosca bene il settore.
È una scoperta relativamente recente: per molti anni le finanziarie hanno preferito uomini con esperienza commerciale maturata nei beni di largo consumo. Ma la necessità di agire in un settore piccolo, sì, però ad alto tasso di concorrenza, ha fatto comprendere che le economie di scala sono importanti. Anzi: fondamentali. Se compri mille vetri zaffiro il produttore ti farà un prezzo. Se ne compri cinquemila, raggruppando le esigenze delle tue marche in un solo ordine, il prezzo sarà molto più contenuto e ciò ti consentirà di essere concorrenziale rispetto ai produttori “puri”. Che percorrono questa via già da un pezzo e sanno muoversi bene.
Per questo l’esperto, il dirigente specializzato in orologeria diventa fondamentale. LVMH ha Stephane Bianchi, Kering ha Patrick Pruniaux. Quest’ultimo ha una maggiore esperienza orologiera (nove anni in TAG Heuer, seguiti da tre in Apple per lavorare al progetto Apple Watch, prima di tornare all’orologeria in Kering) rispetto a Bianchi, proveniente invece dai beni di largo consumo. Eppure Bianchi ha già dimostrato di studiare bene (insediato in TAG Heuer, il suo primo passo fu di andare a parlare con tecnici e progettisti) e di avere le idee chiare. È lui, che ha “soffiato” a Cartier (Richemont) quell’autentico genio di Carole Forestier Kasapi. Una donna unanimemente riconosciuta ai vertici della progettazione dei movimenti per orologi. E la cosa promette molto, molto bene per il futuro dell’orologeria in LVMH.
Ma, dirai tu, perché non hai ancora detto nulla di Richemont? Ci arrivo, ti rispondo.
L’orologeria e la crisi: il Gruppo Richemont
L’attuale gruppo Richemont fa capo al sudafricano Johann Rupert. Che è stato il primo, fra i “finanziari”, a comprendere l’importanza dell’orologeria. Un autentico pioniere. Nel suo portafoglio troviamo marche “pure” (A.Lange & Söhne, Baume & Mercier, IWC, Jaeger-LeCoultre, Panerai, Piaget, Roger Dubuis, Vacheron Constantin) e marche che producono “anche” orologi (Cartier, Montblanc, Van Cleef & Arpels), cui si aggiungono portali di vendita telematica (fra i quali spicca Watchfinder), specializzato nella vendita di orologi usati.
È chiaro, quindi, che per quanto riguarda l’orologeria Richemont è, per importanza, il secondo gruppo svizzero dopo Swatch Group. Una presenza molto, molto importante che però non appare soddisfatta dell’andamento delle proprie marche “specialiste”. Se vediamo il diagramma delle vendite per settori di mercato degli ultimi vent’anni (fonte: Richemont, pubblicato anche dalla stampa svizzera, compreso il quotidiano ginevrino Le Temps), notiamo che l’orologeria non solo contribuisce molto poco all’attivo del gruppo (che fa registrare un notevole balzo in avanti – su base annua – del 121 per cento nel primo trimestre del bilancio 2021), ma è di fatto più o meno ferma ai livelli del 2001.
Mentre è notevolissima la prestazione delle marche di gioielleria, con Cartier in testa e Van Cleef & Arpels in seconda posizione. La cosa si spiega, essenzialmente, con il fatto che nei propri bilanci Richemont non considera Cartier come un produttore di orologi, ma come gioielliere. Il che ha senso, sì, ma va comunque ricordato che – se visto come marca d’orologeria svizzera – Cartier si pone al terzo posto in classifica, dopo Rolex e Omega. Il diagramma, insomma, non riporta, nell’orologeria, i risultati degli orologi Cartier, travasati nella gioielleria.
Cosa accade a Richemont?
In questa estate di tanti veleni e pochi antidoti (come dicevo qui) spicca la notizia che Cyrille Vigneron, Ceo di Cartier, e Nicolas Bos, Van Cleef & Arpels, escono dal CdA e non chiederanno la conferma. Anzi, il Consiglio d’Amministrazione viene di fatto azzerato e ridotto ai soli Johann Rupert, Jérôme Lambert e Burkhart Grund, rispettivamente Presidente, Ceo e Chief Financial Officer di Richemont.
In un primo momento alcuni avevano pensato ad una intenzione in qualche modo punitiva nei confronti di Vigneron e Bos, che pure hanno dato ottima prova di sé. Questa ipotesi insensata è stata di fatto smentita dal trasferimento della sponsorizzazione della Biennale del cinema di Venezia da Jaeger-LeCoultre a Cartier. Una sponsorizzazione molto importante a livello mondiale che prova come i Tre di Richemont vogliano battere il ferro caldo di Cartier per dargli ancor maggiore impulso. E le altre marche, allora?
Architettura industriale e caccia ai giovani
Qui ci si addentra in un territorio di pure ipotesi. Lo scorso anno si era parlato con insistenza di qualche forma di collaborazione fra le marche d’orologeria “pura” di Richemont e quelle di Kering, ma la voce era stata smentita in modo convincente da entrambi. Né sembra che nessuno degli attuali attori operanti nell’orologeria abbia o voglia trovare somme sufficienti ad acquistare un numero così consistente di marche. Ma è pur vero che per Richemont privarsene, oggi, non muterebbe il proprio bilancio in maniera significativa.
C’è anche da considerare il fatto che stiamo parlando di marche un po’ avare di novità tecniche, nell’ultimo anno. Ma in molte hanno provato ad andare a caccia di giovani con modelli più spigliati, più colorati. Più giovani, appunto. Interessantissima, poi, l’avventura di Watchfinder, in grande ascesa e in posizione per diventare leader del mercato degli orologi usati. Un business in forte crescita. E nel quale è forte la presenza di clienti giovani.
A questo punto non sarebbe poi folle ritenere che l’azzeramento del Consiglio di Amministrazione potrebbe preludere all’insediamento di un primo Uomo degli Orologi; un tecnico, o comunque un esperto del settore, magari richiamato dalla pensione, che avrebbe il compito di far pulizia fra una galassia di dirigenti abili, sì, ma non tutti adatti alla posizione che occupano attualmente.
Dopo questa pulizia (che dovrebbe azzerare anche le dannose “correnti interne”), il primo Uomo degli Orologi – ormai odiato da tutti i dirigenti Richemont – potrebbe lasciare spazio ad un secondo Uomo degli Orologi, incaricato di una vera ricostruzione del settore orologeria. Una persona di esperienza in grado di riorganizzare le marche “pure” anche nella prospettiva di quelle economie di scala che ormai sono una necessità assoluta.
Una persona di media età, appoggiata da un anziano del settore e da un giovane. Creando in tal modo un flusso di idee che partono dal passato per proiettarsi nel futuro. Una forma di architettura industriale i cui vantaggi l’orologeria ha scoperto ormai da parecchio tempo. Da un simile rilancio trarrebbe enorme impulso positivo non solo Richemont Group, ma l’intera orologeria svizzera.