Io c’ero e l’ho conosciuto. E posso confermare che se Günter Blümlein non fosse morto a soli 58 anni la storia dell’orologeria moderna sarebbe diversa, totalmente diversa.
Qualche anno fa ho scritto un articolo su Günter Blümlein e A. Lange & Söhne (un articolo che trovate qui). Sono andato a rileggerlo e mi sembra che ancor oggi abbia un buon valore storico per descrivere un intreccio industriale, una serie di astute operazioni che hanno portato Jaeger-LeCoultre, IWC e A. Lange & Söhne a passare di mano. Al termine di questo percorso, nel 2000, l’acquisto da parte di quello che oggi è il gruppo Richemont.
Günter Blümlein e l’orologeria tedesca
Günter Blümlein aveva iniziato a lavorare in Junghans, che lasciò nel 1980 per andare a dirigere IWC e Jaeger-LeCoultre. Ma non aveva soltanto una lunga esperienza di orologeria: aveva acquisito anche notevoli capacità di strategia aziendale. Erano anni, del resto, in cui la Germania andava riprendendo forma con una serie di operazioni societarie spesso spregiudicate, ma di grande solidità e determinanti per il futuro di quella nazione. E non solo.
I meriti di Günter Blümlein in orologeria sono spesso riassunti nella rinascita dell’orologeria tedesca. Dopo la caduta del Muro di Berlino Blümlein comprende che è possibile far rinascere una prestigiosa fabbrica di orologi tedesca, la Lange. Una fabbrica che era stata assorbita dallo Stato comunista e adibita alla produzione di orologi di bassa qualità.
Non sarà facile, una volta creata la A. Lange & Söhne, riacquisire tutti i diritti sul passato della famiglia Lange e il relativo lavoro. Non sarà facile, per Blümlein, convincere negozianti, giornalisti e pubblico che l’orologeria tedesca avesse un grande passato – quanti orologi tedeschi, vedete nelle aste? Pochissimi – e un qualunque futuro. Eppure, nello scetticismo generale, l’operazione funzionerà, benissimo anche a livello internazionale. Come se la Germania avesse sempre prodotto orologi ferocemente contesi dagli appassionati.
Un aneddoto personale
Proprio all’inizio dell’avventura di A. Lange & Söhne, Renato Giussani ed io facemmo un viaggio a Dresda, chiamati da Günter Blümlein. Venne a prenderci personalmente all’aeroporto, insieme alla sua segretaria Annette, benché il volo fosse in enorme ritardo. Ci portò a cena e poi in albergo, il Kempinski, situato nella ricostruzione fedele del castello di Dresda. Ci raccontò con passione quel che aveva intenzione di fare sovrapponendo il possibile con il già fatto. Alla fine non ci muovemmo da Dresda, non riuscimmo a capire dove e come venivano fatti gli orologi. E questo, per due tipini incazzosetti come eravamo Renato ed io, non era bene.
Al tempo stesso gli orologi erano lì. Erano belli, ben fatti, ricchi di argomenti tecnici di cui parlare, innovativi (il datario di grandi dimensioni in quel momento era semplicemente sbalorditivo). E venivano da una persona che sembrava in grado di vendere qualcosa a chiunque, ma senza mai eccessiva malizia. Il marketing di Günter Blümlein si spingeva molto oltre, ma sempre senza considerarti un po’ scemo. Era in grado di convincerti che per tutta la vita avevi sognato orologi tedeschi (il che non era vero); ma al tempo stesso gli orologi tedeschi che Blümlein ti mostrava erano fatti così bene che davvero cominciavi a desiderarli.
Resta comunque il fatto che l’impostazione data da Günter Blümlein alla A. Lange & Söhne resta ancor oggi quella originale, fondamentalmente. Compresa la produzione rarefatta: Blümlein sapeva perfettamente che l’intera operazione era molto rischiosa (non è facile far concorrenza all’alta orologeria svizzera) e che solo con numeri piccolissimi si poteva creare la leggenda. Per quanto ne so ancor oggi i numeri sono al di sotto dei diecimila orologi l’anno e l’orologeria tedesca è diventata un fatto universalmente accettato. Ma il merito è tutto di Günter Blümlein.
Ricordo che sulla via del ritorno discutemmo a lungo, con Renato, sul fatto che avevamo visto molto meno di quel che avremmo voluto. In quel momento – per quanto ci riguardava – non esisteva una fabbrica del marchio. Eppure gli orologi e Blümlein erano così convincenti che decidemmo di aver fiducia. Non fu un errore.
Günter Blümlein e l’orologeria svizzera
A. Lange & Söhne nasce nel 1990 e dieci anni dopo viene venduta, con le altre marche VDA, al gruppo Richemont. Una operazione geniale per le ragioni che trovate nel collegamento al precedente articolo, ma anche perché Blümlein dimostra quanto possa essere attraente l’alta orologeria per un gruppo finanziario. In quei dieci anni non conta solo l’espansione di Lange, che tutto sommato resta un’entità con numeri molto più piccoli del suo prestigio, ma l’ottimo lavoro fatto su IWC e soprattutto su Jaeger. Per questa ragione, quando si comincia a vociferare di una eventuale vendita delle tre marche, le cifre di cui si parla sono elevatissime.
Ricordo che riuscii ad avere una lettera in cui si parlava di due miliardi di franchi svizzeri. Accennai in un articolo a questo fatto (abbassando la cifra, che quasi mi sembrava inverosimile), poi ripreso da altre testate. Blümlein smentì tutti tranne me e quasi ci rimasi male. Incontrandolo per caso in fiera gli chiesi perché. «Augusto, ti conosco abbastanza per sapere che se hai scritto certe cose è perché ne hai prove tangibili. E se io ti smentissi le useresti». Ovviamente aveva ragione e questo dimostra una volta di più la qualità di un uomo che davvero faceva la differenza.
Tanto per capirci: la battuta che circolava dopo la vendita è che Richemont avesse pagato troppo per le tre marche, ma tutto sommato poco per Günter Blümlein. E infatti Blümlein entra subito nel comitato direttivo del gruppo, in perfetto accordo con Johann Rupert, con il quale ha condotto anni di trattative che spesso erano conversazioni amichevoli. Di lui Rupert ha detto: «Già la prima volta che l’ho incontrato ho avuto la certezza che fosse la risposta giusta per ogni necessità dell’orologeria».
Blümlein si avvia quindi ad essere il punto di riferimento per l’intera sezione orologi di Richemont. Ma il primo ottobre 2001, venti anni fa, muore improvvisamente. Fosse rimasto vivo l’intera orologeria svizzera sarebbe in qualche modo cambiata e con ogni probabilità in meglio. Perché di uomini come lui, in grado di unire la profonda conoscenza – anche tecnica – del settore orologiero con la padronanza delle strategie industriali e di marketing, ce ne sono davvero pochi. Pochissimi.