Storia e storie

Pasquale Andervalt e l’orologio a idrogeno

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Nella storia delle fonti di energia alternative in grado di azionare orologi meccanici, un posto di rilievo spetta a Pasquale Andervalt e al suo orologio a idrogeno.
Ogni testo di storia dell’orologeria lo cita, ma Pasquale Andervalt – o Anderwalt, se si vuole seguire la grafia germanica – è un personaggio su cui non è stato investigato a sufficienza.
La carica degli orologi meccanici è un problema che ha trovato svariate soluzioni: dai pesi alle molle, dalle masse oscillanti fino alle variazioni di pressione atmosferica. Ma per trovare un orologio azionato dall’idrogeno, e quasi duecento anni fa, dobbiamo andare a Trieste.

Poco oltre il suo nome

Pasquale Andervalt è citato in ogni storia della misura del tempo come un caposaldo dell’orologeria italiana, anche se dovremmo dire austro-ungarica, dato che il Friuli e Trieste, nell’epoca in cui visse, erano sotto il dominio degli Asburgo. Ben poco si sa della sua vita.

L’inventore dell’orologio a idrogeno nacque a Udine nel 1806 e morì a Trieste il 7 marzo del 1881.
Raffinato meccanico e brillante inventore, ottenne concessione di brevetti per diversi tipi di dispositivi. Raggiunse una certa notorietà, oltre che per altri apparati, grazie a una macchina per svolgere automaticamente il filo di seta dai bozzoli dei bachi, per la quale il governo austriaco garantì privilegio esclusivo di costruzione.

Entrò, però, a buon diritto nella storia dell’orologeria per quella che fu la sua invenzione più singolare: il cosiddetto orologio autodinamico.

L’orologio autodinamico di Pasquale Andervalt

Siamo intorno al 1840 e già in precedenza Pasquale Andervalt era balzato agli onori della cronaca locale e dell’Impero asburgico per la realizzazione di orologi che venivano ricaricati grazie all’azione della colonnina barometrica di mercurio. Il mercurio saliva e scendeva in funzione delle variazioni di pressione atmosferica del locale in cui l’esemplare era collocato, e il suo moto forniva la ricarica.
L’idea non era però originale: già nel XVIII secolo l’inglese James Cox, di cui abbiamo parlato qui aveva presentato un orologio azionato dai mutamenti di pressione.
Ma al di là del voler stabilire primati e antecedenze, il tema della ricarica “alternativa” era sicuramente nei pensieri del nostro inventore. Che, nel frattempo, costruiva e vendeva con successo anche parafulmini e mulini a vento.

Nella galleria fotografica possiamo ammirare tre dei suoi rarissimi orologi autodinamici sopravvissuti: si dice ve ne siano altrettanti in mani private, tra Italia ed Austria, ma il numero non è certo. Il primo illustrato si trova nel Museo dell’Orologeria di Vienna (Uhrenmuseum Wien): ringrazio per le immagini la brava curatrice, l’amica Tabea Rude. Un altro, molto simile, si trova allo Science Museum di Londra ed è parte della collezione della Clockmakers’ Company. Un esemplare molto bello, con un ricco pendolo, è gelosamente conservato in un’importante collezione privata italiana: ringrazio il collezionista che me ne ha gentilmente concesso l’immagine.

Ma come funzionava?

L’eccezionalità dell’orologio di Pasquale Andervalt è data dal meccanismo di ricarica automatica, basato sulla spinta dell’idrogeno generato, per reazione, dalla caduta periodica di palline di zinco all’interno di un serbatoio contenente dell’acido solforico. L’autonomia dichiarata dal produttore era di due durate, in funzione del modello: venti o trent’anni.

Leggiamo direttamente da una cronaca dell’epoca, nello stile del tempo, la descrizione del suo funzionamento. “…[Come nei comuni orologi a pendolo] egli è mediante un peso che esso ha il suo ordinario movimento; ma quando questo peso arriva al basso e che si renderebbe necessario di rimontare l’orologio, apresi nell’apparato rimontatore una piccola valvola per cui sfugge tutto il gas che era contenuto nella campana, e che serviva a mantenere l’apparato alto e galleggiante.

Questo in conseguenza si abbassa; ma chiudendosi intanto la valvoletta ed avvenendo la riproduzione dell’idrogeno per trovarsi lo zinco a contatto con l’acqua acidulata, si ottiene in pochi minuti il rialzamento dell’apparato e del peso dell’orologio e la trasmissione a questo del movimento mediante ingegnosi meccanismi. L’orologio continua il suo moto per alcuni giorni, in capo a’ quali, giunto il peso nuovamente al basso, viene fatto risalire nel modo ora descritto con nuova perdita e nuova riproduzione del gas. Una piastrella di zinco bastando per alcuni anni alla riproduzione del gas, l’orologio si rimonta per tutto questo tempo da sé medesimo“.

Genialità e classe costruttiva

Le immagini dimostrano come Andervalt, al di là della genialità dell’ideazione, producesse pezzi esteticamente raffinati: la loro costruzione, però, non avveniva nell’atelier di Andervalt, bensì a Vienna, presso la ditta Loessel.

Il contenitore cilindrico in cristallo – nel quale avveniva la reazione chimica che faceva sprigionare l’idrogeno ed entro cui scorreva il pistone, grazie alla cui corsa si risollevava il peso motore – poteva essere di tipi diversi. L’esemplare di Vienna è di colore rosso, così come quello della collezione della Clockmakers’ Company visibile presso lo Science Museum di Londra. Un altro a me noto e qui riprodotto è in cristallo di Boemia blu, decorato a bassorilievo.

Le ruote dentate sono esili e conferiscono all’insieme un effetto estetico che ricorda gli orologi scheletrati, ma richiama alla mente anche gli apparati del Capitano Nemo nel suo famoso sommergibile Nautilus. Giulio Verne ne narrò quasi trent’anni dopo: erano comunque il risultato di una nuova cultura industriale, volta al futuro e fiduciosa nel progresso, ma ancora legata a valori estetici tradizionali.

Pasquale Andervalt, dalla gloria all’oblio

Purtroppo, la memoria di Pasquale Andervalt non è stata onorata, nel tempo, quanto avrebbe meritato. Le brevi note relative alla sua sepoltura ci raccontano, laconicamente, quanto segue: “…Fu geniale inventore e costruttore di apparecchi meccanici e scientifici (tra i quali un innovativo parafulmine e molti orologi). Dopo gli studi di ingegneria, si trasferì intorno al 1831 a Trieste e vi apri prima un’officina in Piazza della Borsa, poi una fabbrica in Guardiella. Molti dei suoi originalissimi orologi sono conservati in varie collezioni e musei stranieri“. Dalle note, tratte dal sito del Comune di Trieste, appare anche che la sua tomba versa attualmente in condizioni di abbandono. Triste destino per un uomo geniale.