Ecco il primo di una serie di approfondimenti di carattere economico. In cui si descrive lo stato della nazione e si cercano spiegazioni. Anche con riferimenti al passato
Confesso che ci sono rimasto molto male. Mi rode vedere l’Italia che scivola in classifica alternando un decimo e un nono posto – nelle statistiche relative alle esportazioni d’orologi svizzeri; (mi riferisco alle statistiche ufficiali, rilasciate dalla Federazione dell’industria orologiera svizzera). Mi lascia l’amaro in bocca e vi spiego perché.
Nel 1987 ho inventato la prima rivista al mondo “da edicola” specializzata in orologi. Al mondo, ci tengo a sottolinearlo. Tutto quel che c’è in giro nasce da una rivista italiana (“Orologi – Le misure del tempo”); poi da due riviste italiane (si era aggiunta “Orologi da Polso”); e infine da tre (si era aggiunta “Orologi e non solo”) riviste italiane di orologi. Senza che nessun altro Paese si svegliasse. Gli epigoni “stranieri” arrivarono dopo quasi un anno, di fronte ad un evidente successo delle “specializzate”.
Non è che io fossi un genio dell’editoria: avevo solo notato che i giornali italiani erano pieni di pubblicità di orologi, il che mi spinse a cercare dati. Dati che mi rivelarono come allora l’Italia fosse il secondo Paese al mondo fra quanti importavano orologi svizzeri. Davanti a noi solo gli Stati Uniti: fate voi il confronto fra il numero degli abitanti e scoprirete che la passione per gli orologi era un primato tutto tricolore.
Ora ci battono in tanti, persino – in Europa – mercati considerati sempre deboli come Francia (quasi 68 milioni di abitanti) e Germania (quasi 83 milioni di abitanti); mentre in Oriente la Corea del Sud (circa 51 milioni di abitanti) sembra sempre pronta a superarci stabilmente, spedendoci all’undicesimo posto (noi e i nostri 60 milioni di abitanti).
Ma se confrontiamo i fatturati delle importazioni d’orologi dalla Svizzera e li mettiamo in relazione alla popolazione, allora le cose appaiono subito un po’ meno nere. Le statistiche vanno sempre interpretate, inserite in un contesto più ampio.
È probabile che le nuove strategie commerciali siano tese (soprattutto da parte dei grandi raggruppamenti finanziari) a creare una situazione più stabile, nella quale salite e discese dei grafici siano più controllabili in relazione ad una spesa pro capite. In effetti i mercati una volta erano soggetti a vertiginose altalene, spesso pericolose. Un paio di esempi, in positivo e in negativo.
Alla fine degli Anni Ottanta l’orologio era già diventato un oggetto “di vanità” prima ancora che di necessità. E quindi ogni crisi economica spingeva le famiglie (indipendentemente dal loro potere d’acquisto) a risparmi soprattutto sul superfluo; bei tempi…. Ma proprio in quel periodo ci fu una crisi, bella grossa.
Jean-René Bannwaert, proprietario del marchio Corum, si era impegnato nella realizzazione di una propria manifattura, facendo la cosa giusta nel momento sbagliato. Ripagare i debiti con le banche in un periodo di crisi delle vendite è quasi impossibile… E Bannwaert fu costretto a vendere.
In quegli anni (nell’89, se non sbaglio) Rolex presenta il nuovo cronografo Daytona con pulsanti chiusi a vite. E con un movimento Zenith El Primero modificato in casa. Credo di aver avuto un piccolo imprevisto ruolo in quel che è accaduto. A un certo punto scopro che il movimento era di derivazione El Primero – e non Rolex al 100%, come dicevano loro (e qualunque altra Casa interrogata a proposito dei movimenti adottati, a quei tempi).
Considerato però che in precedenza nei Daytona c’era un Valjoux, e quindi la scelta attuale era migliore, cominciai una lunga trattativa per dire la verità senza scandalismi perché non c’era nulla di scandaloso. Il tutto si trasformò in una serie di articoli che spiegavano la tecnica del movimento Zenith (per altro adottato anche da altre marche illustri come Vacheron Constantin); e poi le modifiche, circa 200, fatte da Rolex.
Non credo, sinceramente, sia stato per causa mia, ma sta di fatto che si scatenò una sorprendente caccia al Daytona, una caccia tutta italiana. In giro per il mondo se entravi in un concessionario Rolex e chiedevi il Daytona di dicevano: “Italiano? Pizza, mandolino e Daytona”. Il bello è che Rolex non aveva mai voluto fare, comprensibilmente, un movimento proprio per un orologio come il Daytona, che fino a quel punto non era oggetto di grande interesse.
Bene: fenomeni di questo tipo erano pericolosi ieri e lo sono ancor di più oggi che coinvolgono gruppi finanziari. Potenti, certo, ma basati su continui investimenti e quindi su una altrettanto continua ricerca di investitori, che implica un altrettanto continuo aumento dei fatturati.
La lunga crisi degli scorsi anni ha causato un inaridimento delle strategie commerciali – impassibili – dei gruppi finanziari; che, al tempo stesso, hanno consentito all’orologeria di sopravvivere senza l’indispensabilità di aver immobilizzati grossi capitali (com’è ancor oggi buona abitudine dei marchi indipendenti), da tenere come riserva per i momenti no.
E comunque l’Italia, pur scivolata nelle parti basse della classifica, secondo le statistiche importa orologi per oltre un miliardo di franchi svizzeri, mentre la differenza di fatturato con altre nazioni europee resta comunque non enorme. E poi l’Italia degli orologi è cosa d’altri tempi… O no? Ne riparleremo.