Meccaniche Veloci, ossia quando le buone idee non bastano. Cesare Cerrito, ossia la volontà di studiare e realizzare al meglio. Poi Meccaniche Veloci e Cesare Cerrito s’incontrano e cominciano un percorso nuovo per entrambi. Mica facile. Ma alla fine il talento imprenditoriale, innestato sulla volontà di studiare per non commettere errori, finisce per avere la meglio. Oggi Meccaniche Veloci è un marchio non solo di tutto rispetto, ma anche in grado di superare crisi epicamente distruttive.
Sì, lo so: questo inizio somiglia tanto ad una delle favolette inventate dagli uffici marketing più aggressivi. So che somiglia a un’agiografia ruffiana, eppure è da qualche anno che studio la vicenda di Cesare Cerrito e Meccaniche Veloci, e ho aspettato a parlarne proprio per verificare che la vicenda non fosse truccata da mezzo metro di fondotinta,
Tu vieni da tutt’altro lavoro, e poi ti è venuta voglia di entrare in orologeria…
Cesare Cerrito: «Ti racconto come. Io sono appassionato di orologi fin da bambino, il mio primo orologio è stato un Breitling. Anni ’80, avevo 14 anni ed ero un ragazzo fortunato. Nel mio piccolo divento collezionista. Passione anche per fotografia, automobili. Proseguo i miei studi, faccio l’università, parto per Londra a lavorare in una banca d’investimento, faccio un master in finanza alla Bocconi e inizio a lavorare nell’ambito finanziario, perché quello è il mio background. Ovvio che da un lato hai la vita professionale e dall’altro quella personale, fatta di passioni e delle cose che ti fa piacere fare e avere nella vita. A 40 anni queste due cose si uniscono per caso, perché mi propongono di rilevare questo marchio, Meccaniche Veloci.
All’epoca ero in Svizzera, mi occupavo di finanza. A 40 anni si allineano le stelle e ti trovi di fronte a un bivio. Devi scegliere se fare del lavoro una passione o di una tua passione il tuo lavoro. Meccaniche Veloci è una sintesi perfetta, ai miei occhi: un marchio italiano di orologi che si ispira al mondo dei motori. Dopodiché subentra la razionalità: ho accettato di rilevare il marchio perché ho ritenuto fosse una sfida di cui potevo farmi carico. Sì, certo, la passione per gli orologi fin da ragazzino. Ma soprattutto ho visto un potenziale, perché Meccaniche Veloci era un marchio fuori dal coro».
Anche perché in effetti avevano impostato questo marchio in maniera meno nobile di quanto avrebbe potuto essere…
Cesare Cerrito: «Hai ragione, condivido il tuo punto di vista, avevano impostato questo marchio puntando molto sull’effetto disruptive del design…».
Spiazzante. Somigliava idealmente al Seiko Sportura del 1999, modificato per sembrare la testa di un pistone.
Cesare Cerrito: «È vero, ti spiazza. E questo mi è piaciuto tantissimo, perché nell’evoluzione della mia vita personale mi stavo liberando dall’obbligo di corrispondere a canoni che pensavo di dover seguire a tutti i costi… Quindi comincia a piacermi l’essere diverso, l’essere disruptive. E Meccaniche Veloci lo era, lo era senz’altro dal punto di vista del design. Mentre come dici tu dal punto di vista meccanico era meno nobile, quindi era molto più indietro rispetto a quanto era avanti col design.
Quando ho rilevato il marchio ho voluto fare un prodotto che prima di tutto piacesse a me, e doveva quindi essere eccellente anche dal punto di vista meccanico. La scelta era inevitabile: fare tutto in Svizzera, che è poco comune per un marchio che si posiziona nella nostra fascia di prezzo. Ti ricordo che oggi partiamo da circa 9.000 franchi come primo prezzo, quindi fare 100 per cento Swiss Made è stata una scelta coraggiosa. E complicata: perché non è facile nemmeno farsi accettare dai fornitori di un certo livello, soprattutto quando hai un pedigree giovane come il mio».
Vero. Molti tecnici guardano con sufficienza chi considerano un neofita, e quindi non sempre lavorano subito bene come si vorrebbe.
Cesare Cerrito: «Tutt’altro, devi pregarli di lavorare per te, devi convincerli. Ma per fortuna non c’è solo l’aspetto economico, c’è anche il progetto. Mi ha molto aiutato Riccardo Monfardino, il mio collaboratore che ha fatto 20 anni in Franck Muller. Alla fine sono riuscito un po’ a entrare, ovviamente da neofita, come dici tu, da outsider, presso alcuni fornitori di qualità. Ho rilevato il marchio 5 anni fa, e sono stati 5 anni di lavoro duro, perché creare un calibro da zero non è facile…».
Beh, il modulo che distribuisce il moto ai quattro quadranti non è semplice. E poi ti serve una base che ti dia tanta energia… Insomma, non deve certamente essere stato facile.
Cesare Cerrito: «Non è stato facile perché il primo progetto si basava sul solito ETA 2892 con un modulo specializzato. È stata una prima scelta che poi ho abbandonato perché volevo un vero calibro integrato. Oggi ho proprio un calibro disegnato da zero con investimenti di tempo e di denaro piuttosto importanti. E qui mi allaccio al secondo punto: cioè la qualità totalmente svizzera e la voglia di offrire qualcosa di unico, di particolare anche sul piano meccanico».
Qual è stato il giorno in cui hai visto un prototipo che ti ha fatto dire “questo sì, ci siamo”?
Cesare Cerrito: «Beh, dal 2015 siamo usciti sul mercato consegnando ai clienti i primi orologi funzionanti. A metà del 2018 io ero soddisfatto di tutta la prototipazione, il che vuol dire che ci abbiamo messo 3 anni».
Più o meno quando è arrivata la crisi di Hong Kong…
Cesare Cerrito: «Ma io a Hong Kong non avevo clienti, per fortuna. Guarda, quando ho preso il marchio sono dovuto ripartire da zero, perché per come il marchio era posizionato prima, i distributori e rivenditori non erano i più adatti a vendere un prodotto di fascia più alta. E quindi sono ripartito basandomi sulla clientela più stabilmente affezionata a Meccaniche Veloci: il mercato giapponese. La risposta è stata tale che tutta la produzione del 2018 è andata in Giappone, e negli anni successivi la situazione non è poi molto mutata.
Sugli altri mercati abbiamo spesso richieste dirette, ma è qualcosa che non amo molto. La strategia del “cut the middle man” non mi piace, perché nell’alta gamma è importante un punto vendita che spieghi, rassicuri, che racconti la storia del tuo marchio. Vendere direttamente è un ripiego temporaneo perché raggiungi il cliente dove non hai punti vendita – per esempio in Inghilterra, dove non ho ancora una rete di distribuzione. Al contrario, il Giappone ha una rete storica, capillare da tanti anni».
È abbastanza interessante il fatto che oggi, dopo il Covid, anche i grandi gruppi tornino a parlare – come hai fatto tu – dell’importanza del negoziante. Un ritorno al rapporto umano.
Cesare Cerrito: «Personalmente non ho mai creduto per un solo secondo che una persona preparata, competente, che spiega un prodotto, sia inutile. Impossibile anche solo pensarlo, nell’alta gamma. Perché l’esperienza d’acquisto, nell’alta gamma, è importante: non è possedere l’oggetto in sé, non è come comprare qualcosa su Amazon. Eccezion fatta per oggetti che ormai sono diventati commodities, oggetti talmente usati e talmente conosciuti che allora vai a cercare il prezzo migliore. Ma quello è il lusso industriale, quello da milioni di pezzi l’anno. Ha significati diversi: spesso, anche se non sempre, sono acquisti non basati sulla ricerca di un piacere personale, quanto per dimostrare qualcosa a chi ti sta intorno.
Nell’acquisto strettamente personale il rapporto umano e la fiducia sono assolutamente indispensabili perché entri in una dimensione diversa.
Non ti è mai successo di comprare qualcosa che a te piaceva da impazzire e qualcuno ti ha detto “ma cosa te ne fai”? Ma perché me ne devo fare per forza qualcosa? L’utilità di un oggetto può essere la sua bellezza, il piacere che trasmette guardandolo».
Serve a far bene all’anima…
Cesare Cerrito: «Sono d’accordo. Guarda, mi sono spesso interrogato sull’utilità sociale di quello che faccio, ed è un po’ un cruccio. Non produco pannelli fotovoltaici o valvole cardiache e mi piacerebbe fare qualcosa di socialmente utile. Poi – e ti prego di credermi: non è per giustificare il mio lavoro – mi sono reso conto che il lusso ha una funzione sociale importantissima, da centinaia e centinaia di anni. E anche con il Covid, che ha acceso tante discussioni (cioè se ha senso spendere tanti denari in oggetti che hanno poca utilità), la risposta è ancora sì, ha una funzione anche il lusso. Ha la funzione, come dici, di far bene all’anima.
Prima magari si sceglieva il lusso più per mostrare agli altri la nostra ricchezza, oggi invece il lusso è più per noi stessi: ci compriamo un abito su misura dal sarto, senza alcun marchio visibile, per il nostro personale piacere. Quindi il lusso ha anche una funzione sociale: il lusso è una forma d’arte che viene “sponsorizzata” da chi la comprende, la condivide ed è in grado di acquistarla. Quindi la risposta è sì, ha senso spendere tanti denari. Non è immorale perché c’è dietro il genio umano, l’espressione di un’arte, di qualcosa che fortunatamente contrasta un’epoca digitale che sta invadendo tutto. Io, come tanti che fanno questi mestieri, sono un difensore di quello che ancora rimane di analogico.
Il lusso deve avere una sorta di responsabilità sociale. Nel senso che un oggetto che perdura nel tempo secondo me è più etico di un consumismo usa e getta. Qualcuno diceva: “Non posso permettermi di comprare cose economiche”. Nel senso che consumare, gettare e ri-consumare non è granché intelligente. Gli oggetti di lusso sono belli perché sono costruiti una volta per sempre, o comunque per il tempo più lungo possibile».
In molti ti direbbero che bisogna poterselo permettere…
Cesare Cerrito: «Certo, è sempre stato così. Ma non bisogna guardare solo al lusso estremo. Anche in passato non esisteva solo Michelangelo, c’era pure una costellazione di pittori “minori” ma comunque di grandissima qualità. E così c’è un lusso in ogni fascia di prezzo e in ogni categoria di oggetti. Quando è arrivato il Covid la reazione che abbiamo avuto tutti è stata quella del buon padre di famiglia. Un atteggiamento conservativo, prudente, di protezione. E l’impatto che ha avuto su marchi come il mio, che sono relativamente piccoli e quindi possono essere esposti a stravolgimenti dei mercati come quello provocato dal Covid, ha portato anche me a un atteggiamento di protezione. Volto a garantire la continuità, se non lo sopravvivenza. E cercando quindi di ridurre le spese, nell’attesa di vedere come avrebbero girato i mercati ed eventualmente si sarebbero modificati i consumi.
Dopo qualche tempo di riflessione obbligata dal lockdown, con la mente più serena ho pensato che magari adesso finalmente i consumi verranno rivisti. Nel senso che non ci saranno più spese folli guidate semplicemente dall’emozione, ma si cercherà di più di acquistare pezzi costosi se ci sono davvero contenuti tecnici che giustificano la spesa – piuttosto che un bene il cui valore è stato costruito con strategie di marketing».
Vuol dire che sei moderatamente ottimista?
Cesare Cerrito: «Beh, io sì. Io sì perché in primo luogo lo sono di natura. E ho passato un periodo di interrogativi e di paure – come tutti credo –, ma questo periodo è servito per rifocalizzarmi sulle cose importanti. Fra le quali, magari non in primo piano, c’è anche quel lusso che ha segnato ogni civiltà, in ogni epoca e in ogni luogo. E va bene che continui ad avere uno spazio legittimo, se però interpretato e declinato nella maniera giusta, come un lusso utile, un lusso rispettoso del cliente. Un lusso con ritmi lunghi sia nella produzione che nel “consumo”. Molti degli oggetti di lusso del passato vengono oggi giustamente considerati capolavori, testimonianze d’arte che – nel tempo, appunto – hanno fatto la storia della cultura.
Oggi Instagram ci spinge invece ad usufruire compulsivamente di immagini che guardiamo per mezzo secondo, decidendo al volo se ci piacciono o meno. E questo, questo comporta un giudizio superficiale e un consumo compulsivo che diventa solo visuale. Il lusso è molto più lento: bisogna spiegarlo, va capito. E queste sono un po’ le difficoltà che incontro, parlando del mio marchio, sfide che devo affrontare perché è un marchio giovane. In questi casi mezzo secondo è davvero troppo poco per poter catturare l’attenzione. C’è bisogno di più tempo per poter raccontare, bisogna rallentare.
Io sono ottimista, per tornare alla tua domanda, perché secondo me questa compulsività nel consumo di oggetti o di beni è destinata a scoppiare. Così come il mondo non è potuto andare avanti con un consumismo frenetico, anche questa sovrabbondanza di immagini e di prodotti alla fine stanca. Viene piuttosto voglia di rallentare, di pensare, di scegliere oggetti o cose che ti danno un piacere vero e non effimero. Io sono ottimista perché l’orologeria è un settore che ha ancora molto da dire. Oggi, domani e dopodomani».