Ricordo bene quando è uscito il Twenty∼4 di Patek Philippe. Era il 1999 e la Svizzera delle lancette aveva ricominciato a dare attenzione al pubblico femminile. Ricominciato, perché negli anni Ottanta e Novanta lo aveva un po’ trascurato. Non voglio generalizzare, c’era stata qualche eccezione (per esempio il Panthère de Cartier, nato nell’83). Ma in quel periodo le case di orologeria non si erano date granché da fare per produrre specifici esemplari dedicati alle signore.
Certo, avevano in catalogo vaste collezioni che comprendevano anche orologi “per lei”: ma in genere erano semplici versioni in scala ridotta di modelli maschili, tutt’al più ingentilite dai diamanti. Poche le linee unisex, realizzate soprattutto per i giovani. Ma nulla di paragonabile all’orologeria femminile dei decenni precedenti. Penso ai piccoli esemplari-gioiello in oro del Boom economico, o ai modelli successivi, dalle ardite architetture che trasferivano al polso l’immaginazione al potere… Superati, dimenticati.
Poi finalmente, nella seconda metà degli anni Novanta, le maison elvetiche sembrano riscoprire le potenzialità offerte dalle donne, tornate ad essere un mercato appetibile. E lanciano quindi collezioni progettate e fabbricate esclusivamente per loro. Come il Twenty∼4 di Patek Philippe, appunto. Ma più o meno nello stesso periodo escono anche il Catwalk di Baume&Mercier, e ancora il Khésis di Chaumet. E sono certa di scordarne qualcuno, perché era nata una vera e propria tendenza. Erano tutti riconducibili a uno stesso stile, a un gusto comune.
Avevano la cassa “di forma” integrata (o comunque perfettamente allineata) al bracciale, a creare una specie di polsino: e infatti li chiamavano manchette 1. Rigorosamente realizzati in acciaio, erano decorati da una o più file di diamanti sulla lunetta, grazie a nuovi macchinari che permettevano di incastonare le gemme in un metallo molto più duro dell’oro. Racchiudevano movimenti al quarzo, adatti alle dimensioni ridotte della cassa – quasi un simbolo dei ritmi di vita dell’epoca. E si rivolgevano allo stesso pubblico.
Donne indipendenti, in carriera o comunque impegnate sul lavoro, cui serviva un orologio pratico sì, ma non anonimo. Dalla forte personalità, capace di catturare l’attenzione senza essere troppo impegnativo, eppure prezioso quanto basta per poter essere indossato anche di sera. Nasce proprio da qui il nome Twenty∼4, che riflette l’idea di un orologio da portare tutto il giorno, tutti i giorni, perfetto con qualsiasi look e in ogni occasione.
Con quel design studiato nei minimi dettagli, quelle finiture eseguite a mano con cura quasi maniacale, il Twenty∼4 colpisce nel segno. E nel cuore delle donne. La cassa d’ispirazione Art Déco ha una costruzione molto particolare: le linee sono arcuate per aderire bene al polso; i fianchi sono sottolineati da un doppio godron 2, cioè da un profilo formato da due elementi sovrapposti con estremità arrotondate; i brancard 3 sono impreziositi da diamanti taglio brillante, incastonati anche agli indici.
Sul quadrante – bianco o nero mat, grigio soleil – spiccano al 6 e al 12 due grandi numeri romani, e piccole lancette a bastone. Anche il bracciale ha una forma originale: lucidissimo, in certi punti con superfici a specchio, è composto da maglie centrali bombate, attorniate da elementi laterali che riprendono – più piccoli ma identici – i godron presenti sulla cassa. La fibbia déployante, decorata con la Croce di Calatrava, rende del tutto invisibile la chiusura; e garantisce una sequenza regolare dei link, senza alcuna soluzione di continuità. Proprio come in un gioiello.
A quei primi tre modelli negli anni si affiancano molteplici versioni: nei diversi colori dell’oro, totalmente rivestite di pavé di diamanti, di taglia small, con il cinturino in raso a sostituire il bracciale in metallo. Fino al nuovo Twenty∼4 Automatic con la cassa tonda, lanciato un paio di anni fa, su cui ci siamo già ampiamente soffermati. Oggi invece il Twenty∼4 ritorna con due nuove referenze che conservano immutato l’emblematico design, ma ne riaggiornano l’aspetto.
Stesso formato della cassa, stesso acciaio lucido, si differenziano dagli esemplari del passato per il quadrante: al 6 e al 12 ora appaiono i numeri arabi, mentre gli indici diventano trapezoidali. Devo confessare però che proprio attraverso lo studio attento di questi nuovi modelli ho scoperto una serie di piccoli dettagli di cui finora ignoravo l’esistenza. E sì che pensavo di conoscere bene il Twenty∼4.
Ma non si tratta di distrazione da parte mia. Piuttosto della capacità dei progettisti di creare un’architettura complessa, ricca di peculiarità costruttive che si rivelano poco per volta. Per questo il Twenty∼4 è in grado di sorprendere anche a distanza di tempo. Ed è probabilmente sempre per questo che ha saputo attraversare indenne gli ultimi due decenni: quel design unico lo ha reso un classico contemporaneo che continua a piacere.
Per tornare alle nuove versioni, concludo con una nota di servizio. Entrambe sono animate dal Calibro 15, il movimento al quarzo prodotto in manifattura (oggi come ieri), con il medesimo riguardo destinato ai movimenti meccanici. Ed entrambe costano 12.970 euro, un primo prezzo per Patek Philippe. Che comunque non va a scapito delle meticolose finiture. Vi rimando alle didascalie.
p.s. Non me ne vogliano i signori uomini, ma mi sembra opportuno riportare qui sotto qualche spiegazione ad uso maschile. Non vorrei mai che in questo periodo di costrizione in casa vi vadano in ipossia i neuroni, nel tentativo di comprendere termini tecnici del gergo muliebre… 😉
- Manchette: in francese significa “polsino”, ed è usato in gioielleria nel senso di alto bracciale che veste il polso.
- Godron: ancora in francese, “modanatura ovale”; di solito si riferisce ai gioielli, ma talvolta anche alle acconciature e perfino al vasellame.
- Brancard: sempre in francese, “stanga”; sta a indicare i due segmenti longitudinali posti accanto al vetro.