Iniziamo qui il racconto della collezione Octa di Françoise-Paul Journe. La prima realizzata dal maître horloger, che non solo ripercorre la storia della marca ma ne espone in modo concreto la filosofia
François-Paul Journe: del chi sia questo geniale orologiaio, della sua storia, delle sue creazioni, si è scritto di tutto e di più. Il motto Invenit et Fecit, più o meno letteralmente “lo inventò e lo fece”, sintetizza perfettamente la filosofia produttiva della maison. Ci riporta all’antico, ai classici latini, ma nel contempo parla di invenzioni e di qualcosa di attuale, della creatività, delle idee che si concretizzano in quegli orologi inconfondibili. Linee sinuose, assenza di spigoli, curve che si innestano l’una sull’altra senza mai (o quasi) dare spazio a un tratto rettilineo. Qualsiasi appassionato che si trovi di fronte una cassa, un quadrante Journe, non avrà difficoltà a riconoscerne i principali elementi distintivi.
Se si guarda sotto la superficie, poi, si apre un affascinante ventaglio di complicazioni e di soluzioni rivoluzionarie. Un mondo di idee di chi in poco più di vent’anni è riuscito ad affermare il proprio marchio e a ritagliarsi uno spazio di rilievo nel mondo dell’orologeria di altissima gamma. Una parte importante della produzione, forse quella più “a portata” (sempre tenendo in considerazione il livello alto, altissimo, di cui stiamo parlando), è costituita dagli esemplari mossi dai calibri Octa. Parafrasando le parole di François-Paul Journe, non tutto può essere tourbillon, equazioni del tempo, cronometri a risonanza. Ci vogliono anche soluzioni più “normali”, pensate per la vita di tutti i giorni, che abbiano la funzionalità e la praticità come linee guida.
Ora, parlare di normalità nel caso della maison ginevrina è quanto di più lontano da questo concetto si possa immaginare. Perché l’eccellenza non è mai persa di vista: ne abbiamo la riprova in questa breve storia che andiamo a raccontare. L’analisi, l’osservazione dell’esistente e la consapevolezza di poter apportare migliorie a quanto già proposto sono le basi dei calibri Octa. E il punto di partenza è un movimento a carica automatica. Siamo nel 1997. I disegni dei quadranti, che costituiranno la base del progetto Octa, sono ancora oggi appesi nella manifattura ginevrina. E una cornice accoglie la “tela” che Journe utilizzò per i primi schizzi del suo progetto: ovvero la tovaglia di carta di un bistrot parigino.
Primo obiettivo: arrivare a un’autonomia soddisfacente. Che, nelle idee di Journe, era di cinque giorni. Per ottenerla, il modo più immediato pareva essere l’allungamento della molla di carica. Proprio come veniva fatto negli orologi da campanile, in cui l’altezza serviva (anche) per consentire uno sviluppo maggiore dei sistemi di carica (i pesi in pietra sorretti da corde) e quindi per aumentare la riserva di marcia. In un orologio da polso, con gli spazi a dir poco limitati, l’autonomia di cinque giorni diventa una sfida di non poco conto. Anche perché non è che all’epoca nessuno ci avesse provato, ma gli accorgimenti adottati si erano rivelati inefficaci, andando a compromettere la precisione dei movimenti.
Una molla di carica “potenziata”, quindi. Il che significa una sottile lamina lunga oltre un metro e larga un millimetro, in grado di “dare vita” all’organo regolatore. Ma senza opporre eccessiva resistenza (e quindi con una bassa costante elastica), dato che a caricarla non ci pensano le mani dell’uomo ma un rotore. Giocando con la massa di quest’ultimo (in oro e decentrato) e con le dimensioni del bilanciere – che troppo piccolo non poteva essere per non rendere il movimento troppo sensibile a urti e sollecitazioni esterne -, Journe riesce nell’intento di creare un equilibrio perfetto tra le variabili del sistema. Il calibro Octa automatico (FPJ 1300, il nome esatto) risulta in grado di fornire oltre cinque giorni di autonomia a fronte di un breve ciclo di carica di un’ora e mezza.
Ovviamente il pensiero di Journe non si ferma qui. La seconda e forse più grande sfida è l’aver pensato (nei tre anni che sono serviti per progettarlo) il calibro FPJ 1300 come base per differenti complicazioni che potessero essere utili nel quotidiano. Fin qui nulla di eccezionale, direte voi. Ma se il movimento rimane delle stesse dimensioni e dello stesso spessore, indipendentemente dalla o dalle complicazioni inserite, beh, avrei qualcosa da dissentire. L’idea geniale, che dimostra una capacità visionaria senza pari, è l’avere lasciato nel calibro Octa lo spazio per integrare complicazioni anche molto diverse tra loro; e aver saputo far coincidere le esigenze di ognuna di queste in termini di forature e lavorazioni. Il tutto in 30 millimetri di diametro e 5,7 di spessore. Vi siete ricreduti?
Nel 2001, finalmente, il primo orologio Octa vede la luce. Si presenta con l’indicazione delle ore decentrata verso la corona di carica, visibile per fare capolino dal polsino della camicia durante la vita di tutti i giorni. Il quadrante è una piastra in oro giallo che accoglie i contatori in argento avvitati; mostra anche l’autonomia residua (e non poteva essere altrimenti) e la gran data. Il tutto è racchiuso in una cassa di 38 millimetri di diametro, in platino o in oro rosa. Quelle linee tracciate sulla carta prendono vita e il primo capitolo di Octa rappresenta solo uno dei grandi successi che la giovanissima maison consegue nel 2001. Anno in cui è siglata la collaborazione con Harry Winston, anno in cui si sceglie il luogo in cui sarà realizzata due anni dopo la manifattura.
La mente fervida di Journe e la genialità del progetto, che consente di integrare complicazioni senza stravolgerne le basi, sono due eccezionali motori che in breve tempo regalano alla collezione Octa altre referenze. E decretano il successo dell’idea e delle sue forme. (continua)