E poi arrivò Alain Silberstein. Architetto, ma più probabilmente artista. Erano anni che non potete immaginare. Gli Ottanta cominciavano a dissolversi nei Novanta, scendendo qualche gradino della scala evolutiva. Io c’ero.
Antefatto sui prodigi della tecnica moderna, che poi venitemi a parlarne male. L’altra sera mi appresto ad una seduta Instagram di invettive sul Festival di Sanremo, quando Alberto Uglietti (lo troverete presto in queste pagine) mi manda un WhatsApp per avvisarmi che Alain Silberstein mi cita in una intervista su Hodinkee. Non ho tempo e chiedo solo se bene o male, perché non si sa mai. Ho una brutta fama. Bene, dice, e allora aspetto la prima voragine pubblicitaria per leggerlo.
Rewind… Flashback
Alain ricorda di quella prima rivista al mondo e del fatto che fummo i primi a parlare di lui e dei suoi orologi. Mi fermo a ricordare e mi si apre un mondo. Più tardi mi loggo a Hodinkee per ringraziare Alain e l’autore dell’intervista. Più tardi ancora scopro Alain che sorride dicendomi che legge sempre Il Giornale Degli Orologi. Triangolazione Telematica Internazionale. Anche i vecchi, nel loro piccolo, giocano a fare gli alchimisti del web.
Tutto nasce a Basilea. 1987. Alain Silberstein conquista un proprio stand nei meandri della fiera.
Per capirsi. A quei tempi c’era un piano terra delle Marche Nobili (indimenticabile la villetta Liberty a due piani rosso e oro di Cartier; indimenticabile la raffinata cucina all’immenso stand Ebel, nel quale poter entrare era meglio che Rolex) e tutto intorno il caos assoluto. Camminavi per chilometri seguendo scale e passaggi misteriosi che non eri certo di trovare la via del ritorno.
C’era un padiglione minore, ma comunque immenso, con un terrazzo interno dove gli espositori avevano un tavolo, due sedie e una vetrina. Lì, ad esempio, ho incontrato Gerd Lang e i suoi Chronoswiss che, ad onta del nome, venivano prodotti in Germania. Lui era un formidabile tecnico che ebbe l’idea (fu il primo, primissimo, e tutti gli altri dopo) di resuscitare il quadrante “regolatore” in un orologio da polso. Movimento così così, ma nobilitato da una regolazione a collo di cigno che produceva da sé. Ha venduto a me il suo primo orologio, che a mia volta ho regalato ad un amico. Ve l’ho detto che non sono un collezionista.
Lang mi dice di andare a vedere l’Accademia dei Creatori Indipendenti, fondata, dice, dal mio conterraneo Vincenzo Vincent Calabrese. Mi spiega la strada e per tre giorni ci provo, perdendomi però in sentieri quasi inesplorati.
Tra i meandi della fiera
Parentesi. A quei tempi Basilea era una immensa fiera paesana. Su tutto dominava un odore di crauti e salsicciotti arrosto. Ristorantacci un po’ dappertutto. Mangifici rapidi in cui ti ingozzavi di bratwurst, crauti (appunto) e tracannavi birra nella speranza di riuscire a digerire. Dopo tre giorni preferivi il digiuno o gli immondi “Tortelloni Antonio” che trovavi come piatto esotico all’italiana in uno dei tanti mangifici rapidi. I “Tortelloni Antonio” (ripieno mai identificato, sugo svizzero che era meglio il ketchup) erano terribili, ma cominciavi presto ad avere nostalgia del cibo di casa tua e li mangiavi nascondendo il nostalgico piacere. Ma tornavi a casa e mangiavi pastasciutta vera per almeno una settimana. Ah, les italiens…
Stavi tutta la durata della fiera perché non potevi mancare – dopo i primi giorni con le Marche Nobili o presunte tali – il piacere della ricerca. Oltre agli odori era prepotente e invasiva la musica a tutto volume delle stazioni radio svizzere. Andava fortissimo un gruppo italiano, gli Scooters, che cantavano Zum Bai (“zum lalleri/eran bianchi e ora son neri”), autentica hit, in terra elvetica e in Germania. Specialmente dopo tre birrone bionde. Che poi attenti: gli Scooters avevano anche scritto un bel pezzo alla Beach Boys coverato dai Tremeloes, che all’epoca non erano mica pizza e fichi.
Atmosfera da osteria. Da birreria della remota provincia bavarese, insomma. Roba che la fiera della porchetta di Ariccia, al confronto, ci andavano in pellegrinaggio solo raffinati gourmet. E improvvisamente odori e suoni si spalancano davanti al piccolo, piccolissimo stand di Alain Silberstein. Ti fermi perché in giro non c’è nulla del genere. Nulla se non Swatch e alcuni giocattoli orientali che imitavano Swatch senza averne nessuna, nemmeno una delle qualità.
L’incontro con Alain Silberstein
Che poi quello era un mondo diverso, perché Alain Silberstein esordiva con un cronografo animato dallo stesso Valjoux stipato spesso nella cassa d’orologi di non poche Marche Nobili. Solo che loro non lo dicevano e lui sì. Perché mentre guardi ti si avvicina. Era proprio come oggi, solo un po’ più magro e nero, con “gli occhi di bragia” come Caron Dimonio. Vestito di nero proprio come oggi, solo che non sorrideva. L’ho capito solo dopo qualche tempo, il perché: si stava giocando tutto quel che aveva in tasca su quegli orologi. E fosse andata male sarebbe andata malissimo, per lui.
A quei tempi parlavamo tutti un patois (patuà, si pronuncia, un minestrone di lingue) tipico della fiera di Basilea. Spesso parlavi quella strana lingua persino con altri italiani, che ce n’erano tanti perché allora l’Italia era il secondo mercato mondiale dopo gli Usa. Ma di orologi l’Italia capiva molto di più.
Il primo sorriso, Alain me lo fa quando dico Mondrian, perché quelli sono i colori di Piet Mondrian. Il secondo arriva con la parola Miró, perché le geometrie e le serpentine sono quelle di Joan Miró. Con il piede d’appoggio in Vasilij Vasil’evič Kandinskij. Poi aggiunge, con un terzo sorriso: “And Bauhaus case” con un inconfondibile accento francese. E parla, mi racconta. E noto che nel frattempo non entra nessuno nel suo stand, mentre alcuni guardano le vetrine e se ne vanno scuotendo la testa.
Sì, una cassa molto Bauhaus (vedere il confronto con Nomos Glashütte, che di Bauhaus ha grande competenza), ma acciaio lucidissimo o nero – che nero ancora non se ne vedeva quasi mai, negli orologi. Da Alain ho imparato che se vedi un orologio che ti convince, un orologio sul quale c’è da dire, uno sul quale il suo autore sa dirti perché, allora scrivine subito, che lui possa o meno investire in pubblicità. Tu scrivine, che non sbagli. È nato così, quel primo articolo. Non so se sia stato il primo in assoluto, ma non è questo il punto: ne valeva la pena.
Alain Silberstein oggi
Poi Alain smette di fare l’imprenditore, dopo una ventina d’anni. Ma il segno lo ha lasciato. Lo ritrovi negli orologi che disegna per Louis Erard – la purezza del tocco maturo – e soprattutto nell’incontro con la stravaganza geniale di Maximilian Büsser. Mi riconosco nel percorso di oltre trent’anni che ha portato alla Legacy Machine N°1 “secondo Alain Silberstein”. Cambiano i dettagli Silberstein, ma cos’altro vuoi cambiare ad una impeccabile idea iniziale?
Dettagli, dettagli e ancora dettagli per definire certosinamente lo stile artistico. Ribadito dalla versione con cassa nera, come sempre nelle opere di Alain, anche se come gusto personale trovo che il titanio riesca ad illuminare di attualità i suoi colori. Ci pensassero su, gli altri: titanio e colore e poi ditemi che Alain non è un artista vero. Uno spazzaneve dell’orologeria d’arte, che apre la strada a chi non sa trovarla. Meno convincente, invece – ma è solo una questione di gusti – la versione in oro rosa, forse un po’ scialba.
Ecco cosa succede a mettere insieme due vecchietti e un po’ di tecnologia. Ricordi e futuro in un piatto forse gourmet, ma comunque genuino e saporito. Arte (quando ancora nessuno parlava di arte, in orologeria) e allegria. Voglia di sorrisi e di rimettersi in gioco, sempre e comunque. Io c’ero. Noi ci siamo ancora. Vero, Alain?