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Dietro le quinte. I prezzi in Italia tra filiali, distributori e negozianti

Parliamo ancora dei prezzi degli orologi, ma questa volta entriamo nel vivo della questione. E cominciamo subito dai prezzi in Italia, perché servono poche premesse.

La “regola” di base è che se un orologio esce dalla fabbrica svizzera a 3mila franchi, in negozio costa circa 6mila euro. Arrivato in Italia, il prezzo dell’orologio viene immediatamente caricato del 22 per cento di Iva. Quel che resta se lo dividono in misura variabile il distributore (o la filiale) e il negoziante. Il quale – vale la pena ricordarlo – non ha il diritto di rendere quel che non riesce a vendere, tranne rarissimi casi. Il che vuol dire che parte del capitale investito dal negoziante per acquistare gli orologi è sistematicamente immobilizzato dall’invenduto.

A seconda delle marche e dell’importanza del negoziante, la percentuale incassata sul prezzo degli orologi varia da un massimo del 40 per cento a un minimo del 30 per cento circa. Tolte le spese (dai commessi all’affitto del negozio, principalmente) non è che resti moltissimo. Un negoziante, quindi, vive della varietà d’offerta (marche diverse fra loro per prezzo e vendibilità) da proporre ad una clientela il più possibile fedele. Perché quel che contano sono i volumi, la quantità di orologi venduti.

I prezzi in Italia: dicono i lettori…

Qualche lettore mi ha fatto notare, a proposito dell’articolo sui prezzi in fabbrica, come la situazione sia più variegata e complessa di quanto io l’abbia descritta. È vero, ma come al solito l’obiettivo di questo tipo di articoli non è quello di creare nuovi “addetti ai lavori”, quanto di descrivere la sostanza delle cose. In maniera ovviamene divulgativa.

Altri lamentano il costante aumento dei prezzi in Italia ipotizzando che in orologeria, come avviene in altri segmenti di mercato, i “ricarichi” del solo distributore o negoziante superino il 100 per cento. Non è così, come vedremo fra breve. Altri ancora se la prendono con i produttori che fanno pagare a caro prezzo movimenti “tutto sommato niente di che”. In alcuni casi è vero, ma per alcuni produttori è una scelta obbligata a causa di una lunga diatriba legale fra Swatch Group e i produttori stessi.

Torniamo in Svizzera: la questione dei movimenti

Vado rapido anche in questo caso. Molti anni fa Swatch Group venne accusato di aver assunto una posizione dominante, nel mercato dei movimenti. Più o meno l’80 per cento dei produttori usava, per i propri orologi, movimenti ETA acquistati da Swatch Group in vari allestimenti (e costi) e poi modificati, rifiniti o accoppiati a moduli specializzati, ad esempio per produrre cronografi. La stessa ETA (appartenente a Swatch Group, appunto) non era affatto felice di questa situazione che la esponeva a rischi continui.

Poni che un produttore di orologi ordini a ETA 300mila movimenti. ETA si attrezza per produrli, ma poi succede qualcosa – ad esempio arriva una delle cicliche crisi – e il produttore dica di volerne solo 100mila. Cosa se ne fa ETA di quei movimenti in più? Perché se c’è crisi ovviamente non è che può darli ad altri produttori, che magari tagliano anch’essi le richieste. Può dirgli che se li deve prendere tutti altrimenti non verrà mai più rifornito. Ma in questo caso il produttore finirà per rivendere i movimenti in eccesso a organizzazioni di dubbia reputazione, che magari li usano per realizzare orologi falsi o imitazioni. Un grosso problema.

Per farla breve, alla fine è accaduto che ETA non fornisce più (o quasi) movimenti a marche che non appartengano a Swatch Group. Le altre marche hanno quindi poche alternative: produrre da sé i movimenti (ad altro costo, perché abbiamo visto la scorsa volta che stiamo parlando di piccole quantità di movimenti); ricorrere alla fornitura di fabbriche esterne come Sellita e Soprod (che però non hanno le dimensioni di ETA, almeno per ora); oppure cercare forme di economia di scala, che però di solito coinvolgono le fasce superiori di prezzo.

Solo in rari casi, poi, ci sono accordi fra le marche. Come quello fra Breitling e Tudor, per cui Breitling fornisce a Tudor movimenti cronografici di manifattura, mentre Tudor fornisce a Breitling movimenti di manifattura “semplici”. Per ora la situazione è in divenire. Il problema è che la cosa tarpa le ali a quella che una volta era la nutrita schiera delle marche al di sotto dei 3mila franchi al confine svizzero. Marche che oggi appaiono in difficoltà sempre più asfissianti.

Capisco quindi i lettori che dicono di non poter più seguire la propria passione nei confronti dell’orologeria a causa dei prezzi troppo alti. E però in questa fase di passaggio non esistono soluzioni rapide.

I distributori e le filiali

C’era una volta la figura del distributore indipendente che, come il negoziante, non aveva gli orologi in conto vendita ma era costretto a comprarli (e se non li vendeva, non poteva restituirli e se li teneva sul groppone). Oggi, di fatto, i distributori indipendenti non esistono quasi più. Tranne rarissime eccezioni, di solito relative a marche di costo molto elevato, il distributore o grossista è una filiale locale della marca o del gruppo al quale la marca appartiene. Una scelta discutibile e discussa, che però consente una serie di vantaggi.

Anche se la stessa filiale ha dei costi che incidono sui prezzi finali degli orologi, la scelta di aprire una filiale in Italia (come altrove) permette alle marche un maggior controllo del mercato locale, con una limitazione degli aumenti e una migliore razionalizzazione. C’è da dire però che alcuni distributori indipendenti, tra i pochi rimasti (come Corvo: ne abbiamo parlato qui) stanno trovando nuove formule di vendita che fanno ben sperare per il futuro. Va ricordato infine che a carico delle filiali, oltre alle spese di gestione, ci sono anche quelle relative alla pubblicità locale, ossia nel Paese in cui operano.

John Pierpont Morgan

E chi era costui? Ma se vi dico J.P. Morgan, capite subito che si tratta di una delle più importanti banche americane di servizi finanziari.

John Pierpont Morgan coniò quella crudelissima frase che suona: “Se devi chiedere il prezzo di un oggetto, allora vuol dire che non puoi permettertelo”. E che oggi, purtroppo, sembra realistica. I prezzi in Italia come altrove stanno aumentando in maniera continua (recentemente anche a causa dei costi dell’energia e dell’approvvigionamento delle materie prime). E aumenta quindi il numero delle persone che pur apprezzando l’orologeria non possono permettersi un acquisto.

Cosa rischia l’orologeria svizzera

Trovo che la situazione sia pericolosa perché restringere lo spazio per le marche di qualità, ma non “di lusso”, restringe anche il campo d’azione dell’intera orologeria svizzera. E spinge molti compratori verso orologi orientali più o meno “smart”. Già qualche marca orientale sta provando a muoversi verso l’alto di gamma, seppure con prezzi non sempre inferiori a quelli degli orologi svizzeri (anzi…). Si tratta comunque di una tendenza in decisa crescita che potrebbe cambiare non di poco la conformazione del settore. Ed è un dato di fatto che la Svizzera degli orologi stia attraversando una fase di trasformazione che deve evolversi il più rapidamente possibile.

Sono ben consapevole che in questo periodo (tranne pochissime eccezioni) i guadagni delle marche sono più bassi rispetto a solo pochi anni fa. Non ostante i continui aumenti dei prezzi. E sono anche ben consapevole che vengano fatti molti sforzi per creare maggiori occasioni di realizzare economia di scala. Ma la Svizzera deve svegliarsi, e presto: nessun mercato può sopravvivere a lungo producendo soltanto oggetti “di lusso”, anche se certi prezzi sono oggettivamente giustificati agli occhi di chi ha una conoscenza del mercato. Se non si trova una soluzione, il compratore, l’appassionato finirà sempre più per rivolgersi al mercato dell’usato (che infatti è in crescita), a quello degli orologi orientali o, semplicemente ad altri oggetti.