Nella parte precedente dell’intervista con Nicola Andreatta ci eravamo focalizzati sulla parte estetica del Roger Dubuis Excalibur Superbia. Ma anche l’estetica è pur sempre figlia di una tecnica. Pensate a Leonardo, pittore supremo e uomo di genio, che non riesce a trovare la giusta tecnica per poter eseguire affreschi nei propri – lunghi – tempi. Con il risultato che L’Ultima Cena era già totalmente rovinata una ventina d’anni dopo che il Da Vinci l’aveva terminata.
Di quale tecnica si parla, nel caso del Roger Dubuis Excalibur Superbia? Per quanto riguarda la parte estetica parliamo della scelta, del taglio e dell’incastonatura delle 600 pietre preziose di cui la cassa è rivestita. Ma anche della particolare architettura con cui si è dovuta realizzare la cassa, per arrivare all’oro bianco impiegato, che è ad alto tenore di palladio per evitare variazioni di luminosità nel tempo. Faccio un riassunto introduttivo per poi comprendere meglio la raffinata tecnica di sertissage del Roger Dubuis Excalibur Superbia.
In pratica, seguendo il progetto elaborato in collaborazione con l’artista giapponese Kaz Shirane, si è creata una cassa in oro bianco composta da poligoni irregolari destinati a montare le gemme. La tecnica usata è quella dell’incastonatura invisibile, qui resa particolarmente complicata dal fatto che i 600 triangoli irregolari alla base devono ospitare altrettante pietre preziose tagliate una per una in tetraedri irregolari. Che infine devono essere adattati per poter combaciare, sì, ma senza forzarsi a vicenda per evitare che le pietre si spezzino.
Ecco, già questa breve descrizione fa capire il perché del prezzo del Roger Dubuis Excalibur Superbia: 900mila euro circa (per un esemplare unico, che potrebbe però essere seguito da realizzazioni con pietre o movimenti diversi). Il motivo non sta solo nel valore delle pietre preziose e nemmeno nel movimento di manifattura, scheletrato, con doppio tourbillon e bariletto “volante”; ma anche e soprattutto nel lungo, difficilissimo lavoro manuale che comporta.
Nicola Andreatta: Vedi, quasi un anno fa ci siamo resi conto che oltre alla dinamica “motori-sport” – e quindi l’orologio sportivo spinto al limite dal punto di vista dei materiali, con ricerche tecniche importanti – avevamo un po’ perso di vista l’altra anima di Roger Dubuis. Ossia il desiderio di espressione artistica, di aderire a un progetto d’arte. Per rilanciare questo secondo territorio di espressione, abbiamo deciso di avvicinarci a una serie di artisti. Come sempre la priorità della ricerca ha riguardato le affinità fra il nostro modo di essere e il mondo dell’artista. Perché non basta dire “va beh cerco il Raffaello di turno, quello universalmente famoso, e gli faccio fare qualcosa per noi”.
Siamo partiti, quindi, dalla produzione e dall’espressività di certi artisti per trovare quelli che in qualche modo si avvicinassero alla nostra attitudine, al nostro modo di essere espressivi con l’orologeria. Kaz Shirane è ci ha colpito moltissimo per la sua maniera di interpretare lo spazio, giocare con il riflesso, con la luce, con poligoni irregolari che poi propone in installazioni ahimè gigantesche. Difficile tradurre il macro dell’artista nel micro del nostro mondo. Ma Shirane ci piaceva proprio e allora abbiamo cercato di superare le difficoltà tecniche che nascevano al momento di trasferire su un orologio il suo modo di fare arte.
Me ne rendo conto, perché per giunta volevate a tutti i costi l’incastonatura invisibile, che già di per sé richiede tecniche difficili da padroneggiare. Ma quando poi questa tecnica deve essere applicata a centinaia di poligoni irregolari, ciascuno tagliato in modo diverso… Dovete creare un micidiale intreccio di guide in cui incastrare le pietre, ma gli eventuali errori alla fine si sommano. E l’ultima pietra, quella che chiude il lavoro? Come avete fatto poi per le parti curve, anch’esse composte da poligoni? È già difficile con le semplici (si fa per dire) pietre a taglio baguette, quelle formate da rettangoli regolari.
Nicola Andreatta: L’ultima pietra, infatti, deve essere tagliata in modo specifico, lì per lì, visto che deve necessariamente completare il lavoro precedente. E questo non riguarda una sola pietra “terminale”, perché di pietre “terminali” ce ne sono parecchie, tante quanti sono i percorsi logici. Ma attenzione: il problema non sta soltanto nel taglio finale per adattarsi al percorso. Bisogna anche tener conto di come si sviluppano le superfici.
Ad esempio non possiamo far coincidere in verticale le punte opposte di due pietre. Ma non possiamo nemmeno creare superfici a scalini, fastidiose. Per ottenere quindi una superficie regolare esternamente, ma internamente ben combinata su piani (verticali e orizzontali) diversi, è necessario un lungo lavoro di chi taglia le pietre, un lavoro realizzato in perfetta sintonia con chi esegue l’incastonatura. C’è quindi la complessa geometria dell’artista che deve essere combinata con una geometria – forse ancor più complessa – che “scolpisca” la cassa in un mosaico perfetto.
Per adattare le pietre alle esigenze dell’incastonatore abbiamo dovuto trovare un atelier in grado di eseguire entrambe le operazioni. Tagliare e incastonare ogni pietra lì per lì, senza possibilità di programmare il lavoro in precedenza. E non ostante questo, anche se le pietre vengono disegnate all’ultimo momento, quando poi le si deve applicare applicare, quando tutto si deve chiudere e stare insieme, si deve infine ricalibrare ogni pietra, adattandola per evitare che si spezzi nel contatto con le pietre attigue. Sottolineo “le” pietre attigue. Nella fase pratica ci siamo ritrovati fra le mani un gran numero di pietre spezzate, ormai inutilizzate, che non è stato facile gestire…
A quel che dici va poi aggiunta la solita difficoltà tipica dell’orologeria. Trovare delle pietre della stessa purezza dello stesso colore…
Nicola Andreatta: Questo è sempre fondamentale, ma qui dobbiamo aggiungere il fatto che pietre tagliate in tetraedri irregolari rischiano di avere sì lo stesso colore, ma di riflettere la luce in modo comunque diverso. Abbiamo anche dovuto tener conto di questo, per creare uniformità. Ma non è finita.
Premesso che con l’incastonatura invisibile le pietre si sorreggono l’un l’altra, rimanendo libere di scorrere su guide fin quando non poni l’ultima pietra, quella che fissa il tutto, abbiamo dovuto superare un altro problema. Quello delle superfici “concave”, come il raccordo fra la carrure e le anse. Confesso che questa parte è stata la più difficile in assoluto e per fortuna, ripeto, avevamo trovato un partner in grado di tagliare al momento le pietre secondo le esigenze via via espresse dall’incastonatore.
E non abbiamo ancora detto nulla del lavoro a monte, ossia della progettazione e della realizzazione di una cassa che sia solido supporto per il movimento quanto per le pietre. Anche questa è una lavorazione che richiede una gran quantità di prototipi. Se guardi il disegno ti rendi conto che la sua struttura è ispirata in qualche modo al “Nido d’Uccello”, allo Stadio Nazionale di Pechino (progettato dagli architetti di Basilea Herzog & de Meuron. N.d.R.). Una cassa grezza composta da poligoni irregolari. È già bella così, anche senza pietre…
Ah, e abbiamo dovuto utilizzare oro bianco ad alto contenuto di palladio per combattere eventuali effetti negativi delle variazioni di temperatura. L’oro al palladio 210 è “più bianco del bianco” e ci consente quindi di non dover rodiare il metallo prezioso – che tende a conservare tracce del caratteristico colore giallo – anche se più caro e difficile da lavorare.
Dopodiché c’è l’eccellenza tecnica dei movimenti Roger Dubuis. Un patrimonio già importante, specialmente per quanto riguarda i tourbillon multipli, che però avete in qualche modo aggiornato per l’occasione. Ad esempio con il bariletto “volante”, cioè fissato solo inferiormente sulla platina. O meglio, su quella parte scheletrata, una stella, che funge da platina, ossia da base per la meccanica.
Nicola Andreatta: Sì, però devo dire che il bariletto “volante” non è una cosa così nuova. È stato fatto anche da altri e noi stessi lo abbiamo usato in passato per l’Aventador, per il calibro con i due bilancieri inclinati. Abbiamo eliminato il ponte che lo tiene in sede dall’alto più che altro per esigenze estetiche, per mettere in risalto la stella che sorregge il bariletto. Quel che cambia è che abbiamo ricalcolato molte cose perché il bariletto volante possiede inevitabilmente un’efficienza inferiore, che va quindi compensata.
Vedi, questo calibro è per noi un’autentica icona sin dal 2005. Siamo stati i primi ad introdurlo e oggi ci siamo resi conto che potevamo fare ancor meglio. Abbiamo cambiato le gabbie dei tourbillon, realizzandole in titanio per aumentare l’efficienza riducendo il peso. Ma abbiamo totalmente rivisto anche il “rouage”, i ruotismi: abbiamo cambiato il profilo dei denti, ottimizzandolo ruota per ruota con l’obiettivo di migliorare la scorrevolezza e diminuire quindi le richieste d’energia.
Abbiamo cambiato il differenziale che collega le gabbie dei tourbillon: ora utilizziamo un differenziale diretto eliminando quindi un pignone per migliorare, ancora una volta, l’efficienza. Abbiamo utilizzato, e questa forse fra tutte è l’ottimizzazione più significativa, un nuovo sistema di lubrificazione per l’organo regolatore, che aumenta l’efficienza e permette al movimento di lavorare dieci anni senza ulteriore manutenzione.
Vuoi dire che Roger Dubuis in grado d’offrire dieci anni da garanzia?
Nicola Andreatta: Non ancora, ma ci arriviamo. Questo sarà uno dei prossimi passi. Il nuovo bariletto, ritornando a lui, è stato rielaborato lavorando su coppia e peso. Abbiamo ridotto lo spessore, siamo arrivati a mettere una molla più grande e abbiamo portato i grammi/forza per millimetro da 2400 a 1500 ancora una volta aumentando l’efficienza del bariletto, il che ci ha permesso di aumentare la riserva di carica fino a circa 72 ore. Vale a dire un 30 per cento in più rispetto al movimento precedente.
Bada bene: questo è un aumento “alla Roger Dubuis” perché da noi l’autonomia è calcolata fino al momento in cui la lancetta delle ore comincia a perdere in potenza e in velocità. Non quando si ferma. La lancetta dei minuti in realtà avanza comunque per 85 ore e quindi chiunque altro dichiarerebbe 85 ore di autonomia. Per un movimento con doppio tourbillon direi sia abbastanza interessante, come performance.
È chiaro che avete lavorato molto, quindi, per offrire ancora più contenuti in relazione al prezzo. In un certo senso avete compreso che il mercato del lusso, dopo le crisi economiche e sanitarie, deve sempre più essere basato sulla qualità motivata. Sulla consapevolezza che il cliente porta comunque a casa, indipendentemente dal prezzo, un oggetto di qualità.
Nicola Andreatta: Beh, questo periodo è stato difficile per noi come pure per i più bravi e forti. Come sempre ci sono modi differenti per approcciare una situazione del genere e il nostro Chairman Johann Rupert ce l’ha ripetuto più di una volta: “Fate in modo che questo momento complicato vi permetta di ripensare a come fate le cose”. Ed è quel che stiamo facendo, anche se Roger Dubuis era comunque una “macchina” che già funzionava bene. Ora si tratta di fare un ulteriore passo avanti e questo momento ci ha aiutato a riflettere meglio sulla direzione da prendere. Senza tradire il proprio passato, ma rimettendoci tutti in discussione.
Recentemente abbiamo fatto una videoconferenza con tutti i lavoratori della fabbrica chiedendoci cosa ci spinge a venire al lavoro ogni mattina. Oltre allo stipendio, è chiaro. E la risposta è stata semplice: a ciascuno di noi piace andare sempre un po’ più oltre, ci piace scoprire, ci piace rimetterci sempre in gioco. Una visione omerica della vita, quella per cui Ulisse continua a cercare per vedere fin dove può arrivare. Ecco. Tutti noi di Roger Dubuis, tutti, siamo curiosi di vedere fin dove riusciamo a spingerci.