Parlavo, in un articolo sull’impermeabilità, di come la percezione di un fatto possa essere ingannevole. Per colpa di qualcuno che pesca nel torbido o per mancanza di informazione. Un primo esempio. Se guardo la proverbiale foto di Albert Einstein che fa la linguaccia, penso ad un genio che fa lo spiritoso, ad un Premio Nobel brillantemente ironico. Se però non sapessi (mancanza di informazione) chi è Albert Einstein, potrei pensare che si tratti della foto di un vecchio rincoglionito che ha urgente bisogno di supporto mentale e di un barbiere.
Gli errori di percezione
Se osservo la foto di un orologio (una sola foto frontale, ad esempio) sui social, senza leggere le informazioni tecniche, allora posso fissarmi sulle somiglianze e le caratteristiche estetiche, dimenticando magari una raffica di bellurie tecniche. È accaduto recentemente per il cronografo Zenith Chronomaster Sport: in tanti hanno criticato la lunetta in ceramica nera con la scala tachimetrica bianca, in teoria simile a quella del Daytona di Rolex.
Peccato che la scala tachimetrica non ci sia proprio perché la lancetta centrale non indica i secondi crono, ma il decimo di secondo, letto, appunto, su una scala decimale esterna. Alcuni lettori hanno persino continuato a giurare che di scala tachimetrica si trattasse, anche dopo che gli era stata spiegata l’unicità di questo cronografo. Un errore di percezione così forte da rendere difficile cambiar idea anche di fronte all’evidenza. Percezione testarda e incrollabile.
Poi ci sono gli errori di percezione indotti. Magari anche in buona fede. Se ti dico che il mio orologio è impermeabile fino a 30 metri di profondità, tu – che al massimo scendi sott’acqua a un paio di metri – sei indotto a credere di poter usare l’orologio in immersione. Come dicevo nell’articolo (lo trovate qui), in realtà l’orologio è testato effettivamente per 3 atmosfere ed effettivamente 3 atmosfere corrispondono alla pressione che troveremmo a circa 30 metri sott’acqua. Ma la realtà è ben diversa. In qualche modo siete stati indotti a percepire in modo inesatto un’informazione fornita in modo solo parziale. Il giorno in cui la parola metri scomparirà dai quadranti e dai fondelli degli orologi, sarà un grande giorno.
Un altro esempio potrebbe essere la geniale comunicazione pubblicitaria di Apple, che qualche anno fa rivendicava il più recente modello come il miglior iPhone di sempre. Geniale perché la percezione andava da “il miglior … di sempre” (e alcuni percepivano i puntini come il miglior cellulare di sempre), al sottovalutare che un nuovo modello deve essere per forza migliore dei precedenti, altrimenti non ci sarebbe ragione di comprarlo. Una percezione indotta da furbacchioni straordinariamente abili nella comunicazione.
Sulla percezione si giocherà, nei prossimi anni, una battaglia fondamentale per rendere la comunicazione, tutta la comunicazione, più trasparente. Sarà sempre più facile, sia pure con un minimo di attenzione, scoprire il gioco. E chiedersi se il tentativo di deviare la nostra percezione non nasconda prodotti in qualche modo scadenti rispetto alle aspettative create appunto da una percezione intenzionalmente o distrattamente concepita come deviata.
E come si fa, a trasmettere una percezione onestamente positiva di sé o della propria azienda? In teoria la cosa è semplice: trasmettere informazioni chiare e veritiere ponendo attenzione che arrivino al destinatario chiare e veritiere. In pratica, la cosa è molto più complessa. Vi racconto, a questo proposito una storia personale. Della quale parlo perché la cosa ormai sembra in procinto di risolversi positivamente in un paio di giorni. Sarebbe una cosa lunga, ma la limiterò ai fatti principali relativi, appunto alla lunga, tortuosa strada della percezione. Il riferimento ai Beatles è voluto.
Un esempio personale
Un mese fa (un mese fa!) improvvisamente il mio velocissimo collegamento Fastweb si interrompe. Morto. La prima reazione è di fiducia, perché nel passato mi sono accadute cose del genere che venivano rilevate nella notte dalla “centrale”, qualunque cosa sia, e corrette. Le esperienze precedenti, quindi, mi avevano portato ad una percezione positiva.
La mattina dopo il collegamento è ancora morto. Cerco di capire come posso segnalare il disservizio e scopro che posso soltanto farlo con una procedura che promette un “verrai richiamato” prestissimo. Scatta la sfiducia: maledetta Fastweb. Percezione negativa di un meccanismo che appare una via di fuga per spedirti nel nulla. E invece in pochi minuti vengo richiamato dal call center di Durazzo, in Albania. Percezione positiva, che aumenta man mano che sperimento la gentilezza, la competenza e il buon italiano degli operatori. Su di loro non dovrò mai cambiare idea, non ostante la ormai assidua frequentazione. Percezione stabilmente positiva.
Appurato che c’è un problema non immediatamente risolvibile, mi viene detto che verrò richiamato da un tecnico entro qualche giorno. Qualche giorno suona male, ma il tecnico chiama e si presenta il giorno dopo. Percezione quasi radiosa. Il tecnico rileva di non poter nemmeno lui risolvere il problema perché dipende dalle attrezzature alle quali Fastweb si appoggia. Attrezzature di Open Fiber, azienda proprietà appartenente in parti uguali alla Cassa Depositi e Prestiti e a Enel. Comincio a temere: la mia percezione degli enti più o meno statali non è delle migliori.
Qui inizia un autentico calvario di indifferenza – essenzialmente da parte di Open Fiber – che passa per tempi biblici e appuntamenti dati, ma non rispettati e altre piccole bellurie come “non sento” e linea chiusa. Percezione negativissima. Mando una mail al direttore della comunicazione di Fastweb, nemmeno due ore e vengo richiamato. Percezione quasi esaltante, ma solo per Fastweb. (Studiate bene i siti e troverete gli indirizzi utili, anche se di rado sono facili da raggiungere).
Il problema è che Fastweb appare fin dall’inizio impotente. Impotente di fronte a quella che appare essere (uso la parola appare perché di certezza, in questa storia, c’è solo che continuo a non avere la linea) una serie ben concatenata di errori dei tecnici Open Fiber. La mia percezione del servizio Fastweb è che siano come quei ragazzi, a scuola, dei quali i professori dicono che il ragazzo si impegna, sì, ma senza grandi risultati. E scatta la bocciatura, com’è giusto.
Sono i risultati che contano. E il risultato è che da un mese non ho internet; che non so chi e perché ha tagliato il mio collegamento senza avvertirmi e senza trovare alternative; che non conosco il perché dei ritardi e non lo conoscerò mai perché nessuno mi comunicherà chi sono i colpevoli, cosa è stato fatto per sanzionarli e così via. E così la percezione della debolezza di Fastweb, la percezione della inefficienza forse ai limiti del sabotaggio di Open Fiber finiscono per sommarsi nella complessiva percezione di uno sfacelo generale.
Cambia operatore, dici? Ma a parte Tim, tutti gli altri dipendono comunque dall’apparato tecnico di Open Fiber… E a Fastweb ho se non altro trovato gentilezza e sincero desiderio di risolvere. Sia pure con parecchi limiti. Ma quello che mi interessa sottolineare, alla fine di questa storia, è che la percezione non è qualcosa di fisso e sempre uguale nel tempo. La percezione è un concetto dinamico, così influenzato da fattori esterni da oscillare velocemente da un estremo all’altro, fra positivo e negativo.
La percezione e la comunicazione corretta
Per tornare all’orologeria, mi chiama ieri sera un amico e collega che ha comprato a caro prezzo un orologio (non svizzero) di cui la comunicazione esaltava la tecnologia innovativa. Salvo poi scoprire (lui si occupa proprio di tecnologia) che la cosa stava diversamente. Innovazione ce n’era relativamente poca e comunque la comunicazione del produttore aveva lasciato intendere qualcosa di totalmente diverso. Sempre con la tecnica del dico/non dico. La sua percezione del marchio, prima eccezionalmente positiva, è scesa sottoterra.
Perché se in queste storie (e sono certo che anche voi potrete raccontarne moltissime) c’è una morale, allora è questa: è sbagliato comunicare in modo volutamente ingannevole; ma nemmeno basta far bene le cose con una comunicazione tecnicamente corretta, ma fumosa. Non basta seguire i protocolli necessari solo per meritarsi il consenso dei capi. Quel che conta è ciò che arriva ai destinatari, a noi.
Bisogna saper comprendere le nostre esigenze, che poi sono – in altre situazioni – la stesse di chi pesca nel torbido della comunicazione maliziosamente studiata per deviare la percezione. Al di là delle eventuali sanzioni, ne va del buon nome, della reputazione di persone, aziende, Stati. La comunicazione deve imparare ad avere più rispetto. Gli altri siamo noi, a turno. Sempre.