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UR-100 Electrum: Urwerk tra passato e futuro

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«Il termine topos deriva dal greco τόπος, “luogo”, e significa luogo comune. Con esso può quindi intendersi uno schema narrativo indefinitamente riutilizzabile, a cui spesso è legato un particolare motivo stilistico ad esso consono». Così Wikipedia. «L’orologeria svizzera non cambia mai», per esempio, è un topos. Almeno per chi non conosce Urwerk e le sue creazioni, come l’UR-100 Electrum.

Il marchio fondato da Felix Baumgartner e Martin Frei è tutto fuorché statico e non poteva essere diversamente: parliamo di un maestro orologiaio e di un designer entrambi visionari. Fin dalla nascita, nel 1997, Urwerk ha dato alla visualizzazione del tempo una forma e un significato nuovi. Fatevi un giro sul sito del brand, date un’occhiata alle collezioni e provate a trovare un orologio “normale”: non ce la farete, garantito al limone.

Urwerk UR-100: vagabondo che son io…

Per fortuna, dico io. Perché collezioni come la UR-Satellite cui appartiene il giocattolino di cui scrivo oggi – l’UR-100 Electrum, appunto -, sono una botta di vita e di genialità in un mondo che, se è falso dire che non cambia mai, sicuramente lo fa con una certa lentezza. Dopotutto, ciò che caratterizza l’UR-100 Electrum, ossia l’indicazione del tempo attraverso un sistema planetario (a ingranaggi epiciclici) delle “ore vagabonde”, pur se interpretato qui in maniera ultra-moderna, è antico di almeno 400 anni. Era già usato, ad esempio, a metà del ‘600 dai fratelli Campani, artigiani umbri di strumenti ottici.

A loro, papa Alessandro VII commissionò un prototipo di orologio che consentisse di vedere le ore anche al buio e avesse uno scappamento non rumoroso. L’orologio “notturno e silenzioso” creato dai Campani aveva al posto delle lancette alcuni dischi rotanti che indicavano le ore marcando un semicerchio con la scala dei minuti incisa, illuminata dal retro da una lampada a olio.

Sul quadrante dell’UR-100 Electrum vi sono tre satelliti, ciascuno dei quali riporta quattro ore. Essi ruotano su se stessi e intorno a un asse, in una sorta di giostra a tre bracci; allo scattare dell’ora (dipinta in Super-LumiNova, nessuna lampada…), il satellite che la riporta la mette in evidenza allineandosi alla parte inferiore del quadrante; qui, su un arco di circa 140°, si trova la scala dei minuti, lungo la quale scorre una lancetta rossa e bianca solidale all’ora riportata dal satellite.

Rotazione e rivoluzione

Baumgartner e Frei hanno aggiunto un barbatrucco. Quando la lancetta dei minuti passa il 60° minuto dell’ora, scompare per un po’ per riapparire sul lato sinistro del quadrante come un contachilometri, illustrando i 555 chilometri che la Terra percorre ogni 20 minuti ruotando su se stessa (calcolati sulla velocità media di rotazione del pianeta all’Equatore). Sul lato destro è misurata un’altra scala: la distanza percorsa dalla Terra nel moto di rivoluzione intorno al Sole, sempre in 20 minuti: circa 35.740 chilometri.

Non che siano dati di una qualche utilità nel nostro quotidiano, ma sono piuttosto fighi e in linea con la filosofia di Urwerk. Di Baumgartner in particolare: «Secondo me, un orologio è sia una riproduzione fisica sia astratta della nostra situazione sulla Terra. Esso ci àncora a un tempo e a una longitudine precisi, mentre allo stesso tempo testimonia la natura fugace di quella posizione».

Nulla di nuovo anche questa volta perché, come ricorda lo stesso Baumgartner, l’ispirazione gli è venuta da un orologio restaurato da suo padre e realizzato da Gustave Sandoz nel 1893: anziché contare le ore, indicava la distanza percorsa dalla Terra all’Equatore.

E nulla di nuovo nemmeno per Urwerk, a dirla tutta. Questo tipo di visualizzazione a satellite caratterizza tutta la collezione UR-Satellite, mentre le velocità della Terra si trovano nelle diverse varianti della linea UR-100. Dov’è allora la differenza? Nel materiale della cassa dell’UR-100 Electrum, che anche in questo caso ci riporta al passato.

La cassa dell’Urwerk UR-100 Electrum

È infatti realizzata in elettro, o electrum: una lega naturale di oro e argento che può essere ottenuta artificialmente ma che si trova anche in natura, specialmente in Asia Minore. Era utilizzata nella Grecia antica e nell’Antico Egitto come lega per battere moneta; e prende nome dal colore, che ricorda quello dell’ambra, in greco antico ἤλεκτρον, èlektron.

Le dimensioni sono quelle della linea UR-100, 41 x 49,7 mm. Ma ciò che spicca qui è la lavorazione della superficie, plissettata, quasi ondulata. Nell’idea di Martin Frei, ricorda le tribune di un teatro greco, le pieghe di un abito della stilista Iris van Herpen, la terra scavata dalle impronte del tempo, il motivo Seigaiha tipico dei kimono tradizionali… Mi fido! Non è la prima volta che nella linea UR-100 troviamo una cassa lavorata: quella dell’Ur-100V T-Rex ha un Clous de Paris futuristico.

Oltre che per la lavorazione plissettata, che guardandola fissa mi ha quasi ipnotizzato, la finitura della cassa esagonale si distingue per l’alternanza di lucidatura e satinatura; e per le marcate scanalature sui lati a ore 3, 6 e 9, che sono un tocco “ruvido” in un insieme che è tutto sommato piuttosto elegante. Anche grazie alla presenza della corona al 12.

Urwerk e i luoghi comuni…

Per i dettagli del movimento e del quadrante, vi rimando alle didascalie della galleria di immagini. Chiudo ricordando che l’UR-100 Electrum è fatalmente realizzato in edizione limitata di 25 esemplari. Costa 62.000 franchi svizzeri. E vi lascio con uno spunto di riflessione che spero vi sia già venuto leggendo le righe precedenti.

Vi ho raccontato che l’orologeria svizzera non è immobile ma discretamente conservativa e ci sono marchi come Urwerk che provano, riuscendoci, a darle una scossa. Poi però scopriamo che l’UR-100 Electrum sfrutta un’idea vecchia di quattro secoli e che ha la cassa fatta con un materiale utilizzato millenni fa. Saranno Baumgartner e Frei a prendersi simpaticamente gioco di noi con la loro genialità? O forse c’è davvero un fondo di verità nei luoghi comuni, anche in quelli che riguardano le lancette rossocrociate?