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Paolo Marai: l’orologeria? Una questione di scelte

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«Mio padre aveva una bellissima collezione di orologi. Li guardavo, me li faceva provare… Poi li richiudeva in cassaforte. Mi diceva: “Quando guadagnerai, se sarai fortunato, potrai comprartene uno come questi». Adesso Paolo Marai non può fare a meno di indossare uno degli orologi a marchio fashion realizzati con movimento svizzero da Timex Group Luxury Division, che presiede da diciassette anni.
La cosa divertente è che il primo orologio della sua vita è stato proprio un Timex: «Fu un regalo della Cresima», racconta. «Un modello che andava molto tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta». Ben lontano dagli esemplari che il gruppo americano, uno dei primi 10 produttori mondiali di orologi, ha iniziato a realizzare per Versace a partire dal 2005. Cui nel tempo si sono aggiunti gli accordi di licenza con Salvatore Ferragamo e Missoni.

Un portafoglio che cresce con Philippe Plein
Paolo Marai: «Oggi non possiamo parlare di una vera e propria licenza. L’accordo con Philippe Plein è avvenuto mentre stava cambiando l’assetto societario di Timex Group. Siamo però riusciti a trovare l’intesa coinvolgendo WorldTime Watches & Jewelry SA, che si avvale della nostra expertice per lo sviluppo, la produzione e la distribuzione degli orologi e dei gioielli Philippe Plein. Entro fine anno, comunque, potremo rilevare la licenza».

Quali novità arrivano dagli altri marchi che avete in licenza?
Paolo Marai: «Conferma il suo vantaggio competitivo Versace, che a febbraio porterà risultati molto soddisfacenti. Le tendenze stilistiche e il design del marchio hanno funzionato molto bene, sia per i prodotti vicini alla fascia di entry-level price che in modelli più elaborati, come quelli caratterizzati dalla Medusa in 3D inserita tra due vetri. Per tutti i nostri marchi, in generale, il 2021 è stato un ottimo anno, nonostante i cambiamenti organizzativi determinati dal turn-around ai vertici aziendali. Che darà ulteriore impulso alle performance del 2022. Dovrei dunque essere super-ottimista. Ma la cautela è d’obbligo».

Positivo anche il suo sentiment sull’andamento del settore?
Paolo Marai: «Il 2021 è stato un anno straordinario per l’export dell’orologeria svizzera. Il 2022 non potrà che ottenere risultati molto simili. Sembra che la pandemia stia diventando qualcosa di molto simile a un’influenza (con alto tasso di infettati e basso tasso di mortalità). E i Paesi rimasti ancora fermi, come Vietnam, Thailandia, Indonesia e Hong Kong, dovrebbero a breve ripartire. Mentre prevedo un’ulteriore crescita di traffici commerciali con l’America, dopo la vera e propria esplosione dell’anno scorso».

E l’Italia come si sta comportando?
Paolo Marai: «Per noi l’Italia è un mercato molto particolare, dove non hanno mai avuto successo gli orologi di fascia medio-alta con marchi fashion e movimenti Swiss made. Con qualche eccezione, s’intende. Contiamo di vedere quest’anno i risultati dell’accordo strategico siglato con Thom Trade Italy per la distribuzione dei nostri orologi in Italia e in Francia. Ci aspettiamo da questo partner esterno, con una forza distributiva che noi non avevamo sul territorio, richieste precise a cui il gruppo riuscirà a rispondere in tempi rapidi».

Cosa, secondo lei, ha rallentato il mercato italiano per il vostro segmento?
Paolo Marai: «Innanzitutto un retaggio culturale: in un Paese dalla grande cultura orologiera c’è un po’ di resistenza a pensare che un marchio di moda possa avere orologi con movimenti validi. Noi produciamo tanti orologi in licenza con meccaniche identiche a quelle montate da maison blasonate, ma con prezzi più bassi. Stiamo lavorando a scalfire questa resistenza, ma ci vorrà tempo. Pensate che quando entrai in Timex mia madre mi disse: “Che fai, vendi gli orologi Versace? Un vero orologio è un Omega”.

Oggi mia figlia dice che non interessa quasi se un orologio funzioni bene, basta che “fitti” con il suo outfit. Purtroppo, i fashionisti italiani si fermano su orologi più affordable. E c’è anche una certa resistenza da parte dei distributori, ultimamente compensata dallo sviluppo delle vendite online. Certo, i risultati dipendono dalle strategie aziendali, e in particolare dalle conoscenze di digital marketing e dall’adozione di sistemi di comunicazione innovativi. I cosiddetti fashionisti vanno conquistati».

Come avete affrontato e (adesso possiamo dirlo, sottovoce) superato la pandemia?
Paolo Marai: «Abbiamo affrontato la situazione con una certa preparazione. Certo, non potevamo prevedere tutto quello che è successo. Ma da qualche anno avevamo messo in atto processi che si sono rivelati vitali. A cominciare dalla creazione di una struttura centralizzata per il canale digitale, per il quale il nostro personale continua a fare formazione. Abbiamo operatori digitali che da mesi studiano, lavorano e insegnano. Perché sebbene siamo partiti in anticipo, sul mondo digitale c’è tanto da imparare».

E per lo sviluppo dei prodotti come vi siete mossi?
Paolo Marai: «Non ci siamo mai fermati. Molte aziende svizzere hanno rallentato la produzione, talvolta anche la creazione stilistica, durante i lockdown. Qualcuna sta ripartendo soltanto adesso. Noi abbiamo chiuso la fabbrica solo una settimana, due anni fa. Grazie a questa scelta, non abbiamo mai avuto problemi di shortage. Una contaminazione di fattori positivi, insomma, ci ha permesso di stare un passo avanti».

È stato suo padre a inculcarle, oltre alla passione per gli orologi, anche la spinta propulsiva a guardare sempre avanti?
Paolo Marai: «Mio padre si chiamava Angelo ma non era tanto angelico. C’è voluta tutta la pazienza di mia madre per far durare il loro matrimonio per sempre. Però mi ha insegnato a guardare sempre avanti, senza mai arrendermi davanti agli ostacoli. Se volevo qualcosa dovevo conquistarmela. Perciò, sebbene la situazione familiare non lo richiedesse, ho iniziato a lavorare molto presto. E mi sono dato da fare in ogni modo, cominciando dall’andare a svuotare cantine e box. Avevo anche creato una piccola società con un gruppo di amici. Poi trasformai il garage di mio padre in un’officina in cui installavo radio e facevo altri lavoretti da elettrauto. Quando mio padre si stufò di parcheggiare per strada, mesi in piedi una delle primissime società che ricopiava al computer le tesi di laurea».

Dopo la laurea alla Bocconi, Marai ha diretto la divisione audio del gruppo francese Thomson Consumer Electronics, per poi diventare partner di Unicad Sistemi, azienda all’epoca all’avanguardia nei servizi CAD 3D innovativi. La passione per il design e il lusso lo ha portato a lavorare nel mondo della moda (con maison come Fendi, Dior, Vuitton e Kenzo) e dell’orologeria (prima una breve esperienza in Swatch, dal 2005 in Timex).

Trova un fil rouge nelle sue esperienze professionali?
Paolo Marai: «Direi innanzitutto che le aziende di elettronica producono beni durevoli che non sono poi così lontani dagli orologi, per loro natura durevoli. Comunque, il mio percorso mi ha portato conoscenze consolidate nel settore del lusso e metodologie di lavoro tipiche delle aziende che producono su licenza coltivando rapporti molto complicati. Se fino a 15, se non 20 anni fa, le griffe utilizzavano le licenze solo per raccogliere denaro, prestando poco importanza a cosa facessero i partner, oggi è necessario allinearsi totalmente al linguaggio e allo stile della maison, e muoversi all’unisono».

Esperienza che le permette di gestire un’azienda che in 15 anni ha superato i cento milioni di fatturato. Lei ha mai paura di commettere errori?
Paolo Marai: «Mi fa paura chi dice: “Io non sbaglio”. Ricordo che, quando iniziai a guidare l’automobile, il mio padrino della Cresima mi chiese quante volte ero passato con il semaforo rosso. Io risposi: “Un paio di volte”. E lui commentò: “Se mi dicevi zero mi preoccupavo”. Mi insegnò così che il primo passo è accorgersi dei propri errori».

Ha visto molti errori nell’evoluzione dell’orologeria?
Paolo Marai: «Non parlerei di errori, ma di scelte. Swatch, ad esempio, è stato il primo a lanciare gli orologi in licenza con Calvin Klein, e poi ha preferito concentrarsi sui propri marchi. È stata una loro scelta. Così come noi abbiamo scelto di montare movimenti svizzeri. Non credo neppure sia stato un errore dell’industria orologiera non aver previsto l’avvento degli smartwatch, perché sono cosa altra dagli orologi. Il punto è solo che gli uni si contendono con gli altri un posto sul polso».

La pandemia ha spinto l’acceleratore sull’e-commerce?
Paolo Marai: «La distribuzione è sempre in estrema evoluzione. E ha sempre guardato ai modelli americani. Dalla diffusione degli shopping mall, abbiamo seguito la tendenza dei negozi di prossimità, praticamente sotto casa. Contemporaneamente, il digitale diventa sempre più importante. È una comodità con una contropartita: se non sai gestirlo bene e non hai un’immagine di marca forte, il canale online ti prevarica. Sta prendendo quota anche in orologeria. Ma non credo che arriverà a superare il 20 per cento delle vendite».

Ma lei quale orologio indossa?
Paolo Marai: «Piccola controindicazione del mestiere è che per me gli orologi più belli sono sempre quelli che facciamo noi. Quegli orologi di mio padre salteranno una generazione. Ne ho già regalato uno a mia figlia Federica, che oggi ha 27 anni e lavora nel gruppo di moda Vf. Era un Cartier, sul quale ho fatto incidere una dedica per la sua laurea. Jacopo – gioia e dolore di papà, perché ha scelto di seguire la sua passione bella e complicatissima, la musica – deve invece aspettare. Mi ha chiesto un Rolex Daytona del 1979 che avevo acquistato io anni fa: orologio troppo impegnativo per un ventenne».