Scrive Giovanni sui nostri social: “Un Tag con movimento Eta è onesto. A 6.000 è un furto, a prescindere dalla qualità del movimento”. L’affermazione – un po’ contraddittoria: perché mai chi ti offre una qualità adeguata al prezzo dovrebbe essere un disonesto? – può avere un senso per chi non accetta alcun tipo di evoluzione in un brand. O anche per chi, peggio ancora, è convinto che i movimenti “in house” siano sporchi trucchetti per aumentare i prezzi in maniera ingiustificata.
In realtà la storia è totalmente diversa e merita di essere tratteggiata, almeno a grandi linee. Perché consentirà a tutti un atteggiamento meno superficiale, rivelando al tempo stesso la storia di una battaglia feroce per guadagnare i favori del pubblico.
Una domanda e una risposta sui movimenti in house
Fatevi una domanda e datevi una risposta. Io sono Tag Heuer, uso movimenti Eta che mi consentono di proporre i miei orologi con un ottimo rapporto fra prezzo e qualità. Improvvisamene vengo assalito da un morbo autolesionistico che mi spinge a mollare Eta e fare da me, a costi molto più elevati, i movimenti meccanici.
Davvero pensate che io (Tag Heuer) sia uno scemo? Che non vedessi l’ora di sentirmi dare del disonesto? Davvero pensate che ad un aumento dei prezzi corrisponda sempre un aumento dei guadagni? (Fermo restando il fatto che in dieci anni i prezzi aumentano sempre e comunque). La cosa davvero non ha senso, ma per capire bene bisogna fare qualche passo indietro nel tempo.
La catastrofe del quarzo
Finita la Seconda Guerra Mondiale, la Svizzera degli orologi è pronta a dare il meglio di sé. In un mondo che ha davvero bisogno di orologi precisi e affidabili, la sorpresa è costituita dai movimenti elettronici in cui un minuscolo cristallo di quarzo scandisce lo scorrere del tempo con una precisione centinaia di volte superiore a quella di qualunque orologio meccanico. Con una spocchia solitamente poco conforme alla natura dell’industria elvetica, la faccenda sembra risolta. E invece la catastrofe è lì, pronta a mettere in pericolo l’intero settore.
Il punto è che mentre gli svizzeri continuano a costruire questo tipo di movimenti con i metodi dei movimenti meccanici – e quindi con una produzione relativamente limitata e a costi elevati –, l’industria giapponese inventa circuiti integrati e metodologie tali da abbattere i prezzi. Consentendo al tempo stesso una produzione di massa prima impossibile. Ricordo di aver visto, ancora alla fine degli anni Ottanta, avvolgere manualmente le bobine dei motorini elettrici, nella fabbrica di Girard-Perregaux. Che è stata tra i perfezionatori di questo tipo di movimenti, pensate un po’.
Una catastrofe, ripeto, che spinse l’orologeria svizzera verso il baratro dell’estinzione. A salvare il settore fu Nicolas Hayek, chiamato da alcune banche a sbrogliare la matassa dei fallimenti che si susseguivano a velocità davvero inquietante. Hayek fece in modo di reindirizzare l’orologeria verso i movimenti meccanici passando proprio per la Eta, fabbrica che faceva parte del portafoglio del gruppo che man mano veniva composto. Incidentalmente, la Svizzera, di lì a qualche anno, si vendicherà dell’Oriente con lo Swatch, orologio elettronico ancor oggi imbattibile.
Per molti anni la Eta andrà espandendosi, fornendo movimenti praticamente ad ogni marca svizzera. Con risultati eccellenti: dallo “sbozzo” (ossia il movimento ancora privo di finitura) ad allestimenti piuttosto raffinati, appoggiarsi alla Eta era una mossa vincente. O meglio: quasi. Perché insieme alla rinascita dell’orologeria meccanica svizzera bisognava fare i conti con le periodiche crisi economiche mondiali.
Crisi e sovradimensionamento
Immaginate la situazione: alcuni marchi arrivavano a commissionare fino a 300mila movimenti l’anno alla Eta, che quindi si strutturava per rispondere a questa richiesta. Poi, improvvisamente, una crisi di qualsiasi tipo spingeva i produttori a più miti consigli: non più 300mila, ma 100mila, ad esempio. E la cosa non poteva certo far piacere alla Eta. Il risultato? Negli anni Novanta si scatena una vera e propria battaglia, nel corso della quale alcuni produttori denunciano Eta alla ComCo, la Commissione svizzera per la concorrenza, accusandola di posizione dominante, praticamente di monopolio.
Eta risponde che sarà pure vero, ma allora se li facciano da sé, i movimenti. La cosa va avanti per parecchi anni (mica solo da noi la giustizia procede lenta…), fin quando si arriva ad un accordo per il quale Eta smetterà di fornire movimenti ad alcuni produttori, con particolare riguardo a quelli da grandi numeri. In più, dimostrando di avere a cuore le sorti di produttori che non riuscirebbero a sostenere il peso economico di un numero contenuto di movimenti, continuerà comunque a fornire il proprio apporto sia sotto forma di sbozzi, sia di versioni qualitativamente migliori.
Va da sé che alcuni marchi non solo dovranno sopportare il peso della progettazione, ma anche di una produzione che inevitabilmente avrà costi superiori. Perché non potrà godere delle economie di scala di cui la Eta, invece, può avvalersi. E questa, di fatto, è la situazione attuale. La vicenda giudiziaria della Eta insomma da una parte ha spinto i grandi marchi a strutturarsi per produrre i propri movimenti in house; e dall’altra ha portato da un lato alla nascita di aziende che si offrono come fornitori alternativi alla Eta.
I movimenti in house non sono un capriccio
Ma qualcosa sta accadendo. Si fa sempre più profondo il solco fra l’orologeria dei gruppi finanziari (che per primo obiettivo ha quello di attirare nuovi investimenti, appunto) e quello di chi fa degli orologi la propria ragion d’essere.
È di questi giorni l’ufficializzazione del passaggio di Andreas Albeck (già Direttore marketing di Tag Heuer, appunto: giovane e di grande spessore, anche umano) a Brand manager di Hamilton. Un cambiamento significativo che consente di ipotizzare da un lato un ulteriore rafforzamento di Hamilton (la magica trimurti Longines/Tissot/Hamilton, protagoniste della fascia media); e dall’altro un cambiamento di strategia da parte di LVMH, che sembra ben intenzionata a posizionare in maniera diversa proprio Tag Heuer.
Una marca che, a corto di movimenti Eta, è stata spinta come tante altre sulla strada della verticalizzazione, a farsi i movimenti in house. E non è affatto contenta di sentirsi dare della ladra dai protagonisti mediatici del pensiero superficiale. In realtà la qualità di Tag Heuer è già considerevolmente aumentata e il percorso verso il piano nobile dell’orologeria è già evidente nella qualità delle finiture, in dettagli di superiore esecuzione. (E toccateli, ’sti orologi! Non limitatevi a giudizi apocalittici sulla scorta delle foto che pubblichiamo…). Perché vale sempre la pena di tenere bene a mente che il frazionamento in un gran numero di marche crea una concorrenza spietata già a valle, molto a valle dei nostri stessi esami.