Molto più di un semplice saggio sugli orologi da torre, Il laboratorio del tempo (Il Mulino) è una lettura piacevole che getta uno sguardo sulla vita quotidiana del passato, per promuovere il patrimonio storico di Tovo San Giacomo, in provincia di Savona. Con questo obiettivo l’autore, Fabio Caffarena, ha intrapreso il racconto dei Bergallo, una famiglia di costruttori di esemplari per campanili che dalla Liguria si diffondono nel Nord Italia e arrivano fino in Patagonia. Una vicenda di storia locale, familiare e professionale che si intreccia agli eventi della Grande Storia, i cui fatti ne determinano l’evoluzione. Ne ho parlato proprio con Fabio Caffarena, Professore di Storia contemporanea nel Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Genova e autore di diverse pubblicazioni.
Ci può raccontare la genesi de Il laboratorio del tempo? Come nasce e perché?
«Il libro nasce nell’ambito del progetto Le macchine del tempo. Il Museo dell’Orologio da Torre (MOT) e l’Archivio Bergallo di Tovo San Giacomo, presentato nel 2020 dal Comune di Tovo San Giacomo e co-finanziato dalla Fondazione Compagnia di San Paolo di Torino.
Tale progetto, che ha ottenuto il patrocinio del Centro Internazionale di Studi Italiani dell’Università di Genova (CISI), è partito alla fine del 2020. E prevede un nuovo allestimento del Museo dell’Orologio da Torre di Tovo San Giacomo – il primo in Italia, istituito nel 1996 -, oltre all’inventariazione e alla digitalizzazione dell’archivio della famiglia di orologiai Bergallo, acquisito dal Comune una decina di anni fa. Inoltre sono previste attività laboratoriali e didattiche ed è stata rafforzata la rete di contatti con gli altri “musei del tempo” a livello nazionale e internazionale.
In questo contesto, l’idea del libro è nata per ricostruire la storia professionale e familiare dei Bergallo, attivi nella costruzione di orologi monumentali fra Otto e Novecento».
L’impianto accademico dell’opera è impeccabile, eppure la narrazione scorre via veloce: la lettura agile, l’immediata comprensione rendono la fruizione accessibile a tutti. Ci conferma lo scopo divulgativo già nelle sue intenzioni?
«Come dicevo, Il laboratorio del tempo ricostruisce le vicende di tre generazioni della famiglia Bergallo, attiva appunto in Liguria nella costruzione di orologi da torre dalla seconda metà dell’Ottocento agli anni Ottanta del Novecento. E si innesta organicamente nello spirito generale del progetto Le Macchine del tempo, finalizzato a una migliore fruizione dei contenuti del Museo dell’Orologio da Torre di Tovo San Giacomo e delle carte d’archivio. In breve, si tratta di un progetto di valorizzazione culturale e di restituzione pubblica di una storia professionale e familiare. Un progetto cui il libro intende contribuire attraverso una ricostruzione storica che punta certamente alla divulgazione, alla possibilità di arrivare a un pubblico di lettori ampio attraverso una narrazione agile. Ma si tratta anche di un lavoro condotto dal punto di vista metodologico utilizzando i “ferri del mestiere” dello storico accademico».
Quale obiettivo guida l’opera? E come è strutturata?
«Bisogna innanzitutto dire che non sono uno specialista di orologeria e della sua storia. Quindi il mio intento non era quello di scrivere un libro dedicato agli orologi da torre costruiti dai Bergallo. Piuttosto, attraverso il caso-studio rappresentato dalla storia di un’officina di “artigiani del tempo” – di un “laboratorio” come la definivano gli stessi Bergallo -, l’obiettivo era entrare nella Grande Storia. A partire dall’invio nel 1934 di un orologio nella Patagonia argentina – lungo la rotta oceanica seguita tra Diciannovesimo e Ventesimo secolo da numerosi italiani – nelle pagine de Il laboratorio del tempo prende forma una storia locale, familiare e professionale che si intreccia ai grandi eventi separatori dell’età contemporanea, come migrazioni e guerre.
Oltre a centinaia di macchine del tempo, collocate in prevalenza su torri civiche e campanili dell’Italia Nord-occidentale, i Bergallo hanno lasciato un cospicuo patrimonio archivistico costituito da documenti di lavoro e privati: registri contabili, carteggi con clienti e fornitori, agende di appunti e misure, ma anche libri di famiglia, epistolari, diari personali e memorie capaci di creare una fitta trama narrativa».
Quanto tempo ha impiegato nella ricerca tra i fondi archivistici?
«La ricerca in archivio è durata circa un anno, ma in realtà è partita molto tempo prima: nel 2012 ho avuto infatti l’opportunità, insieme al collega Carlo Stiaccini, di realizzare per la Soprintendenza Archivistica della Liguria un primo riordino di massima dell’archivio Bergallo, una volta acquisito dal Comune di Tovo San Giacomo, per procedere alla dichiarazione di interesse storico. Durante questo lavoro ci rendemmo subito conto dell’importanza della documentazione, non limitata a note tecniche di orologeria: l’archivio dell’attività di costruzione di orologi da torre e l’archivio privato della famiglia sono infatti inestricabilmente legati. Informazioni private e professionali convivono talvolta in una missiva e anche nei registri annotazioni personali riaffiorano da appunti di lavoro.
La ricerca ha quindi potuto contare su un lavoro archivistico preliminare condotto anni fa e, durante la scrittura del libro, sul puntuale lavoro di inventariazione dell’archivio Bergallo condotto dall’archivista Simonetta Ottani. Oltre a ciò, negli anni ho avuto la possibilità di riordinare, sempre insieme al collega Stiaccini, alcuni archivi comunali del ponente savonese, tra cui nel 2003 quello di Tovo San Giacomo, e questo ha facilitato il reperimento di ulteriori fonti utili ad ampliare e contestualizzare la vicenda personale e professionale della famiglia Bergallo, anche grazie ad alcune visite come quella al Museo dell’Orologio da Torre “Roberto Trebino” di Uscio».
Quale è stata la difficoltà maggiore che ha incontrato, nella preparazione o nella stesura de Il laboratorio del tempo?
«La difficoltà maggiore – da profano, ripeto – è stata quella di acquisire una seppur minima competenza tecnica relativa ai principi di funzionamento e alla costruzione degli orologi da torre, partendo dalle varie parti costitutive di un orologio, dai sistemi di ricarica…
Come per ogni altra ricerca, la difficoltà, ma contemporaneamente la sfida, è stata quella di ricostruire un contesto intorno alla vicenda: nel caso specifico si è trattato di ambientare adeguatamente la storia dei Bergallo nel quadro di storia locale legata al piccolo paese di Bardino Nuovo – frazione del Comune di Tovo San Giacomo, fino al 1928 Comune autonomo -, dove aveva sede l’officina degli orologi. Un ambiente complesso, un mondo fondamentalmente contadino all’interno del quale non mancavano conflittualità tra famiglie e all’interno delle famiglie. E i Bergallo non facevano eccezione.
Per quanto riguarda la stesura del lavoro non parlerei di difficoltà, ma ho dovuto compiere una scelta narrativa per raccontare i grandi eventi storici di cui i Bergallo furono protagonisti, e che in qualche caso subirono, partendo dalle vicende dell’officina di orologi. Basti pensare ai membri della famiglia emigrati in Sud America o all’impatto devastante che la Grande Guerra ebbe sull’attività, in quanto sia il titolare dell’officina Giovanni Battista Bergallo, sia i due giovani operai, furono mobilitati. E se Giovanni Battista tornò a casa, i suoi collaboratori morirono in guerra o per cause derivanti dal conflitto».
A suo parere, in definitiva, quale è stato il ruolo dei Bergallo nella storia degli orologi da torre?
«Il ruolo dei Bergallo nella storia degli orologi da torre è importante non tanto o non solo per la produzione, ispirata ai modelli francesi Morbier provenienti dalle officine francesi del Giura… Una produzione peraltro significativa, pensando che si trattava di un’officina condotta quasi esclusivamente a livello familiare. Ma per gli elementi di modernità che questa storia rivela. Nonostante si possano avanzare alcune ipotesi, riportate nel libro, è difficile capire come, perché e precisamente quando il fabbro e muratore Giovanni, il primo orologiaio Bergallo, nella seconda metà dell’Ottocento avesse cominciato a cimentarsi nella costruzione di orologi.
Ma fu soprattutto il figlio Giovanni Battista, dotato di non comuni doti imprenditoriali e di intraprendenza, a sviluppare a inizio Novecento l’attività, ampliando la rete di relazioni commerciali e trasformando il lavoro da esclusivamente artigianale a semi-industriale, seppur nella piccola scala: i telai degli orologi erano infatti realizzati da importanti fonderie savonesi e poi le varie parti venivano assemblate in officina a Bardino Nuovo. L’attività rimase florida fino al secondo Dopoguerra, quando la diffusione degli orologi elettrici e poi elettronici si rivelò alla lunga esiziale per l’officina Bergallo, non in grado di adeguarsi alla nuova produzione. Nonostante ciò, Giovannino, ultimo esponente degli orologiai Bergallo, continuò a lavorare fino all’età di oltre ottant’anni. Ed ebbe il grande merito di intuire l’importanza della storia e della cultura del lavoro di cui le vicende della sua famiglia erano depositarie, non disperdendone la memoria».