Storia e storie

L’orologio elettrico: dal bilanciere al chip #1

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Al giorno d’oggi, quando si parla di orologi da polso a pile, la mente corre subito ai movimenti al quarzo, magari economici, di origine cinese e con molte parti in plastica, non certo all’orologio elettrico. In termini quantitativi, è una percezione corretta: ogni anno si produce oltre un miliardo di movimenti al quarzo, la gran parte dei quali ha un costo industriale di 10 centesimi, contro meno di 100 milioni di movimenti meccanici.

Come sempre accade nella storia umana, però, quello che vediamo oggi è solo un punto di passaggio di un cambiamento continuo. Ormai anche gli orologi elettronici al quarzo stanno cedendo il passo agli smartwatch e agli omnicomprensivi telefoni.

La tendenza da parte degli amanti degli esemplari meccanici è spesso di appiattire tutto ciò che funziona a pile su questi movimenti economici, trascurando ciò che c’è stato in passato. Un passato che, invece, è costituito da una storia molto interessante e variegata.

Infatti, prima che questa tecnologia si consolidasse, sono stati necessari molti passaggi, durante i quali sono state sperimentate e realizzate diverse tecnologie. In quei momenti l’orologio elettrico era visto – a ragione – come più avanzato dell’orologio meccanico. Uno status symbol dei tempi che cambiano: nel 1973 l’Omega Megaquartz costava un milione e mezzo di lire, contro il milione 350mila di uno Speedmaster. L’acquisto di un Rolex Oysterquartz, venduto in 25mila esemplari dal 1977 al 2001, dava diritto alla sostituzione gratuita biennale della pila vita natural durante e – si dice – all’iscrizione del proprietario in un apposito Libro d’Oro e a una visita alla casa madre a Ginevra.

Spazzati via dalla fascia economica, gli orologi meccanici si sono reinventati come oggetti di lusso e si sono rovesciati i termini: “Meccanico è meglio”. Ai primi del ’900 i panettieri scrivevano orgogliosi sulle insegne “Forno elettrico”. Ora di nuovo “Forno a legna”.

Miniaturizzare è difficile quanto inventare

Gli studi sull’orologio elettrico datano già dagli inizi del XIX secolo. Ci si potrebbe spingere a dire che il primato potrebbe appartenere all’orologio a pendolo elettrostatico dell’abate veronese Giuseppe Zamboni (1776-1846), che già nel 1817 aveva realizzato dei prototipi. Peraltro è forse l’unico tipo di orologio a non basare il suo funzionamento sul magnetismo. La sua tecnologia dimenticata per oltre un secolo fu riscoperta in maniera clamorosa da Bulova con i suoi nuovissimi Accutron elettrostatici.

Senza sminuire l’importanza di altri inventori, si può dire che l’orologio elettrico da polso si basa tuttora sui brevetti di due personaggi geniali e soci in affari: Léon Hatot (1883-1953) e Marius Lavet (1894-1980).

Del primo si può dire che ha perfezionato il sistema del pendolo magnetico con bobina fissa, brevettandolo nel 1919 col nome di “ATO”. Su questo principio si sono basati pressoché tutti gli elettromeccanici successivi, Accutron incluso, con conseguente pagamento di royalties.

Di Lavet è sufficiente dire che è stato l’inventore del motore passo-passo che porta il suo nome, brevettato nel 1937. Se avete un orologio al quarzo di qualunque genere, dentro c’è il suo motore, seppur nella versione poi reingegnerizzata da Seiko. Nel 1940 ottenne inoltre un brevetto molto ampio sull’uso del transistor per la regolazione degli orologi elettromeccanici. Dalle licenze su questi brevetti arrivò a incassare fino a due milioni di dollari annui. Il marchio Léon Hatot dal 1999 è parte di Swatch Group.

Le tecnologie, quindi, c’erano già tutte. Si trattava di farle stare in pochi centimetri cubi. Una sfida non da poco che ha richiesto decenni: ancora negli anni ’40 del ’900 un quarzo occupava una bottiglia.

Rimandando ad altre occasioni i passaggi che hanno portato i movimenti a occupare armadi, poi scatole, poi piatti da muro, vediamo che cosa è finito al polso delle persone.

Lo stesso bilanciere di sempre, ma magnetico

Il primo passaggio evolutivo è stato quello di utilizzare grossomodo lo stesso bilanciere con molla a spirale di sempre, ma spinto magneticamente. Già questo porta una semplificazione costruttiva, perché unifica il treno della forza e quello del tempo presenti negli orologi meccanici. In questi ultimi si carica una molla che fornisce l’alimentazione e che si scaricherebbe in pochi secondi se non fosse regolata dall’incedere cadenzato del pendolo o dal bilanciere che alimenta.

Nei primi elettrici è invece il bilanciere stesso che funge sia da motore sia da regolazione del tempo. Il treno di ingranaggi diventa unico. Si ottiene anche di aumentare durata e precisione, poiché le forze in gioco sono molto inferiori e più costanti. Una molla a spirale eroga una grande forza nelle fasi iniziali di scarica per poi calare, motivo per cui avevano inventato i bariletti a conoide. Una pila mantiene invece una tensione accettabile per almeno un anno.

Il movimento alternato si otteneva in un modo: l’interazione tra un magnete permanente e un campo magnetico temporaneo generato da una bobina alimentata a intervalli regolari. Quando la bobina è in funzione, si respinge col magnete permanente e il bilanciere si allontana. Allontanandosi, viene meno l’alimentazione e quindi il bilanciere può tornare indietro.

Nel corso dello sviluppo degli anni ’40 e ’50 i movimenti sono elettrici: l’accensione della bobina viene regolata da un interruttore azionato dal bilanciere. Per la disposizione delle parti elettriche, i progettisti hanno preso due strade principali: magneti permanenti sul ponte e bobina sul bilanciere o viceversa. Esempi della prima soluzione sono stati realizzati, tra gli altri, gli Hamilton 500, gli Epperlein 100, i PUW 1000, i Laco 860, vari Timex. Con la seconda, abbiamo visto i Lip R27 e R148, gli Elgin serie 700 e 900, il Landeron 4750.

La prima ondata che ha portato l’orologio elettrico sul mercato non aveva componenti elettronici attivi, ma al massimo un diodo in funzione di spegniscintilla. Perché sì, il problema che affliggeva questi movimenti pionieristici era proprio la carbonizzazione dei contatti elettrici. Tenendo conto che il contatto si apriva e chiudeva almeno due volte al secondo, voleva dire oltre 63 milioni di sfregamenti all’anno.
Per mitigare questo problema ci si è rivolti a materiali nobili – come leghe di platino – per i contatti, all’uso di diodi in parallelo alla bobina e allo studio sulla disposizione della polarità di funzionamento. Si è notato come portando a massa il positivo (ossia avendo il polo positivo della pila a contatto con tutte le parti metalliche del movimento e il polo negativo collegato solo alla bobina) si usuravano meno i contatti. Ciononostante, questi ultimi sono rimasti il punto debole.

Dall’orologio elettrico si passa all’elettronica

Una volta raggiunto in fretta il mercato, dal 1957, con gli Hamilton 500, i Lip R27, gli Epperlein 100, occorre passare al miglioramento successivo. I problemi da risolvere sono due: l’eliminazione dei contatti meccanici e il miglioramento della precisione. Per il primo di essi ci si rivolge ai brevetti di Hatot e Lavet: utilizzare i transistor come interruttori.

Semplificando all’estremo, un transistor funziona come un po’ come un interruttore a relé, solo che la graduazione è continua e non on-off. Il transito di corrente tra due poli – collettore ed emettitore – è regolato dalla tensione applicata a un terzo polo, chiamato base. Più è alta la tensione alla base, più corrente fluisce tra collettore ed emettitore.

La domanda successiva che ci si pone è come si regola la tensione alla base. La risposta è: utilizzando una seconda bobina avvolta insieme alla prima, che funziona all’opposto della sua compagna. Mentre la prima trasforma la corrente elettrica in campo magnetico per allontanare il magnete fisso, la seconda trasforma il campo magnetico indotto dal magnete fisso in corrente elettrica che alimenta la base del transistor. Di conseguenza, quando il magnete è più lontano, il campo si indebolisce, la seconda bobina produce meno corrente e toglie alimentazione al transistor e quindi alla prima bobina. In questo modo il bilanciere, rimasto senza spinta, può tornare indietro e il giro ricomincia.

Introducendo il transistor – che è un componente attivo -, l’orologio elettrico passa a elettronico. Una soluzione introdotta in tutti i movimenti elettromeccanici da polso successivi, Accutron incluso, fino all’avvento del quarzo e del suo chip di controllo.

Come esempi di orologi elettronici a bilanciere possiamo annoverare i diffusissimi ETA 9150, 9154 e 9158, ancora oggi reperibili con poche decine di euro, molti giapponesi, gli Junghans 600 e i derivati russi Luch 3045.

Rimandiamo i discorso sul miglioramento della precisione alla prossima puntata.