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Orologeria svizzera: un 2024 zoppicante e un 2025 da decifrare

È inutile girarci intorno. Il 2024 è stato un anno complicato per l’orologeria svizzera. La parola più utilizzata negli ambienti dell’industria è “normalizzazione”, dopo anni strepitosi caratterizzati dal rimbalzo post-Covid. Una normalizzazione che si è tradotta in un -2,8% fatturato, sceso a meno di 26 miliardi di franchi dai 26,750 del 2023. Giù anche i volumi, con un -9,4% pari a -1,6 milioni di unità, che si sono attestati su un livello storicamente basso: 15,3 milioni di pezzi esportati. E anche se le statistiche della Federazione dell’industria orologiera svizzera (FH) sottolineano un +4,6% nel biennio 2022-’24, ad analizzare le percentuali dello scorso anno sui vari mercati, le cifre negative non sono poche.

Anni strepitosi dopo la pandemia, scrivevo. Nel 2021 il ritorno ai livelli pre-crisi già a settembre e la performance positiva del quarto trimestre avevano prodotto i migliori risultati di sempre per il settore: 22,3 miliardi di franchi, +2,7% rispetto al 2019, con la FH che non considerava il 2020. Il +31,2% rispetto a quell’anno non fa statistica. Il 2021 aveva fatto segnare anche un +0,2% rispetto al record del 2014.

Ancor meglio il 2022, con un export a 24,8 miliardi di franchi, +11,4% sul 2021. Il 2023 è stato invece l’anno delle prime avvisaglie. Chiuso con un +7,6% sul 2022 (a 26,7 miliardi di franchi), ha avuto due volti: dopo la crescita nella prima metà dell’anno (+11,8%), nel secondo semestre si è cominciato a tirare il freno a mano: +3,6%. Preludio a un 2024 zoppicante, in cui l’effetto rimbalzo è scemato. Dovuto a un mix di frenesia da revenge shopping e corsa all’acquisto principalmente per investimento, come tutte le bolle era destinato a scoppiare. E così è stato.

Il 2024 dell’orologeria svizzera in alcuni mercati

Gli Stati Uniti sono rimasti nel 2024 il primo mercato per l’orologeria svizzera e l’unico tra i primi cinque a crescere costantemente dal 2022: +5%, a oltre 4 miliardi di franchi. Per fortuna. Perché la zavorra del combinato disposto Cina-Hong Kong, che ha portato in rosso la cifra finale, avrebbe potuto fare danni peggiori senza la crescita americana e giapponese (il terzo mercato: +7,8%). Il -25,8% della Cina e il -18,7% di Hong Kong sono numeri pesanti, soprattutto perché a oggi non si vede una prossima inversione di tendenza. Sono cifre figlie di un mix tra instabilità geopolitica, congiunture economiche sfavorevoli e politiche nazionali restrittive.

In tutto questo, l’Italia si è confermata nella Top 10 dei mercati per l’orologeria svizzera, piazzandosi decima e con un calo di fatturato tutto sommato contenuto, anno su anno: -1,6%, a poco più di un miliardo di franchi. Giusto per completezza, oltre a Usa e Giappone, solo due altri mercati tra i primi dieci hanno fatto registrare il segno più: Francia (+2,5%) ed Emirati Arabi (+0,6%).

I grandi gruppi in chiaroscuro

Numeri, quelli dell’export dell’orologeria svizzera nel 2024, che si riflettono nei dati dei grandi gruppi che producono o possiedono i principali marchi. Richemont, holding finanziaria elvetica che possiede gran parte dei brand dell’alto di gamma – da A. Lange & Söhne a IWC, da Jaeger LeCoultre a Cartier – dopo un primo semestre deludente, nel terzo trimestre dell’esercizio fiscale 2024/’25 (termina il 31 marzo prossimo) ha registrato risultati sopra le stime nelle principali divisioni e in quasi tutti i mercati. La crescita dei ricavi, a tassi correnti e costanti, è stata del 10%, a 6,2 miliardi di euro. Se da un lato le vendite del marchi della gioielleria (Buccellati, Cartier, Van Cleef & Arpels e Vhernier) hanno segnato +14%, il comparto orologi ha continuato a scendere, ma ha ridotto il calo: da -13% a -8%.

Il gruppo francese del lusso LVMH, che possiede Bulgari, Hublot, TAG Heuer e Zenith, non ha fatto meglio. Il fatturato 2024 è sceso del 2% a 84,6 miliardi di euro dai quasi 86,2 miliardi del 2023. Giù del 17% anche i profitti. Senza entrare nel dettaglio, la divisione orologi e gioielli del Gruppo ha fatto segnare un -3% a 10,5 miliardi di franchi, dovuto principalmente, anche in questo caso, alle difficoltà in Asia.

Dei grandi gruppi, l’unico orologiero puro è Swatch Group: anche qui le cifre sono quello che sono, per limitarsi ai dati macro. Fatturato netto di 6,735 miliardi di franchi, -12.2%, a tassi di cambio costanti (-14.6% a tassi attuali). Utile operativo a 304 milioni da 1 miliardo e 191 milioni del 2023. Margine operativo pari al 4.5% (15.1% nel 2023). Utile netto di 219 milioni contro i precedenti 890. Margine netto pari al 3.3% (esercizio precedente: 11.3%). Cash flow operativo di 333 milioni a fronte dei 615 del 2023. Liquidità netta di 1,376 miliardi da 1,988.

Lo Stato a sostegno dell’orologeria svizzera

Il quadro di difficoltà aveva spinto lo scorso settembre le autorità svizzere a sostenere il settore con misure straordinarie. Come testimonia il caso di Sowind Group, proprietario di Ulysse-Nardin e Girard-Perregaux, che aveva ricevuto il sostegno del Governo per continuare a pagare circa 50 dei suoi 320 lavoratori passati all’orario ridotto. 

Lo aveva confermato a Bloomberg Patrick Pruniaux, Ceo e Presidente di Sowind Group, il primo Ceo di un marchio di orologi a rivelare che stava utilizzando il regime di lavoro a tempo ridotto per gestire i costi durante la flessione della domanda: «Per ora si tratta di una piccola crisi dell’orologeria, leggermente scollegata dall’economia. Quest’anno è una sfida», aveva dichiarato.

Che 2025 sarà?

Detto questo, da molti analisti il 2025 è visto ancora come un anno di prudenza, in attesa di un vero rimbalzo dell’orologeria svizzera nel 2026. Lo conferma, per esempio, Jean-Philippe Bertschy, esperto di orologeria che opera nella banca d’affari elvetica Vontobel e che recentemente ha dichiarato al sito swissinfo.ch: «La mancanza di appetito dei consumatori cinesi per i prodotti di lusso è la ragione principale di questa situazione complicata per il settore». Aggiungendo che «i marchi del lusso che offrono prodotti di alta qualità, emozionali e con un forte legame con la clientela continueranno a guadagnare quote di mercato. Si preannuncia invece un anno molto difficile per gli altri marchi e per tutti i fornitori del settore».

Perché non va dimenticato che quella dell’orologeria svizzera è una filiera completa e complessa, della quale l’orologio è solo il prodotto finale. È un ecosistema composto da numerosi fornitori e subfornitori, spesso locali e di piccole dimensioni: i quali sono stati messi molto sotto pressione prima dal Covid e poi dall’andamento degli ultimi due anni. Per quanto i grandi marchi siano riusciti a mantenere i livelli occupazionali, il caso di Sowind che ho citato sopra (non isolato) rimane importante.

Dazi sull’orologeria svizzera: c’è il rischio?

A spingere il settore dell’orologeria svizzera alla cautela per il 2025 è ancora l’incertezza geopolitica globale, alla quale si è aggiunto il rischio di una “guerra dei dazi” su larga scala che il Neopresidente americano Donald Trump sembra avere già innescato. Per quanto la Svizzera non sia parte dell’Ue, contro la quale ha tuonato The Donald, nessuno sa con certezza se o come eventuali dazi saranno applicati dai governi nel 2025. Anche se è chiaro che, nel caso, non saranno utilizzati come generatori di entrate, ma come armi per costringere ad agire in settori non sempre legati al commercio.

Ciò significa che c’è incertezza sulla possibilità che si applichino dazi, su quali siano gli obiettivi e sulla loro durata. Inoltre, in caso siano imposti, non si sa se l’industria degli orologi di lusso e in particolare l’orologeria svizzera sarà un bersaglio, sia dal lato dell’offerta sia da quello del consumo. L’industria orologiera globale è piuttosto piccola rispetto alla maggior parte degli standard del settore e quindi fare pressione su di essa non porterebbe a troppe concessioni politiche. In ogni caso, il peggior nemico dei mercati non è il segno meno, ma l’incertezza. E su questo fronte ce n’è tanta.

Rimane comunque la possibilità concreta che eventuali dazi aumentino il prezzo d’acquisto di un nuovo orologio per i consumatori o che provochino un aumento dei prezzi delle parti e dei componenti dell’orologio stesso. Ciò che rende problematici gli aumenti dovuti ai dazi è il fatto che l’industria orologiera, in generale, ha fatto lievitare i prezzi al dettaglio negli ultimi anni. Un nuovo aumento creerebbe degli shock di mercato che impedirebbero a molti consumatori, intenzionati a comprare, di procedere con l’acquisto.

Se i prezzi cominciassero a calare…

Una risposta coraggiosa da parte dei marchi, non solo dell’orologeria svizzera, potrebbe essere una riduzione dei prezzi. Se i loro prodotti costassero meno, anche con l’applicazione di dazi i prezzi al dettaglio non apparirebbero così alti come per i prodotti di altri settori. Quindi, in un mercato in cui l’aumento dei costi sarebbe imposto unilateralmente, solo chi sarà in grado di avere costi di produzione più bassi potrà offrire ai consumatori prezzi competitivi.

Molti brand potrebbero essere saggi fermando la corsa agli aumenti o invertendo la tendenza, in modo da rendere i loro prodotti più competitivi in un mercato in cui tutti gli orologi costeranno di più. In alternativa, i marchi che hanno aumentato i prezzi potrebbero non essere in grado di farli crescere ulteriormente e dovranno assorbire l’aumento dei costi di gestione, invece di trarre vantaggio dagli aumenti dei profitti dovuti ai prezzi più alti.

Del resto, di fronte alla riduzione dei volumi e alla decrescita delle vendite in alcuni mercati storici, molti marchi hanno cercato di mantenere i profitti semplicemente chiedendo ai clienti di pagare di più. Peccato che alcuni beni di lusso costino più del doppio rispetto a pochi anni fa e molti abbiano registrato aumenti a doppia cifra nel giro di pochi anni. L’alternativa a un bagno di umiltà e a una politica commerciale più avveduta sarebbe un aumento degli stock, che indurrebbe marchi e retailer a politiche di sconto che preferirebbero evitare. Un cane che si morde la coda. Ecco perché per il 2025 l’orologeria svizzera – già di per sé un settore tutt’altro che cuor di leone – invoca prudenza. C’è da sperare che guardare al 2026 come all’anno del rilancio non sia solo uno spostare avanti il problema. Se così fosse, il problema rischierebbe di diventare davvero grosso.