Storia (e preistoria) di uno degli orologi più amati di oggi, l’Octo di Bulgari. Che all’inizio non è proprio la cronaca di un successo annunciato, almeno in Italia. Dal design esuberante dei primi tempi all’understatement tanto apprezzato ai nostri giorni, ecco com’è andata – nei ricordi di chi c’era…
“Nemo propheta in patria” è un’espressione che spesso si crede riflettere un complesso vizio italiano. Un misto di invidia e sfiducia condito da un eccesso di autocritica per il quale tendiamo a pensare che solo quel che viene dall’estero (idee oppure oggetti) sia corretto e desiderabile. In realtà l’espressione, molto antica (viene dai Vangeli), ha un proprio forte influsso un po’ dappertutto, anche se altrove l’autocritica è meno chiassosa e autolesionista che da noi. Poi ci sono le eccezioni. Come Bulgari, che non è nuova ad improvvisi, forti afflati d’amore da parte del pubblico italiano. Sta accadendo, da un paio d’anni a questa parte, per la collezione Octo, che vale la pena esaminare in generale perché c’è molto da scoprire.
In molti sono convinti si tratti di una collezione nuova di pacca: falso. Octo è un nome che compare negli anni Ottanta nelle collezioni di Gérald Genta, forse il miglior disegnatore d’orologi da polso che la Svizzera (e non solo) abbia conosciuto. Origini piemontesi, Charles Gérald Genta (Ginevra, 1º maggio 1931 / 17 agosto 2011) è autore della trilogia Royal Oak, Nautilus, Ingenieur (rispettivamente per Audemars Piguet, Patek Philippe e IWC), nonché fondatore di una propria marca – Gérald Genta, appunto. Il tema dell’ottagono ritorna spesso nei suoi disegni, convinto com’era che gli portasse fortuna. Il che era vero solo in parte.
Non ostante fosse incondizionatamente amato dai mercati mediorientali e russi (il primo orologio da un milione di dollari – senza pietre preziose – fu un supercomplicato di cui vendette in poche ore tutti i sedici esemplari prodotti), non era un grande amministratore di se stesso. Per cui nel 1999 si trovò costretto a vendere la propria marca – e il proprio nome – a Bulgari, che pressoché contemporaneamente acquistò anche un altro marchio artigianale, Daniel Roth. Fu un ottimo affare, perché Bulgari oltre ai disegni di Genta comprò il grande know-how tecnico di entrambi i marchi, patrimonio di base sul quale ha in seguito fondato e sviluppato la propria manifattura. Bulgari per qualche anno continuò a produrre orologi con i due marchi acquisiti, mentre Genta provò una nuova avventura imprenditoriale con il nome di Gérald Charles, ma senza grande fortuna. Gradualmente poi Bulgari ha abbandonato i nomi di Gérald Genta e Daniel Roth, e nel 2011 il marchio romano verrà acquisito dal gruppo LVMH di Bernard Arnault.
La collezione Octo dell’epoca non ha mai scatenato afflati d’amore né in patria né, tutto sommato, in Europa. E non è difficile comprendere perché osservando la versione del 2006: il Black Spirit, un bizzarro tourbillon con ore retrograde, interessante da un punto di vista tecnico (aveva il ponte del tourbillon in vetro zaffiro e la lunetta in tantalio, metallo raro che magari potrebbe tornare nel mirino di Bulgari), ma troppo chiassoso dal punto di vista estetico. Eppure, a guardar bene, la cassa è chiaramente riconoscibile come progenitrice di quella attuale.
Né andava meglio, sempre nel 2006, con l’Octo 48-Month Perpetual Calendar: un calendario quasi perpetuo, nel quale la data andava corretta solo a febbraio degli anni bisestili (una semplificazione tecnica che abbassava un po’ il costo ma alzava molto l’affidabilità, anche perché la tenuta stagna era garantita fino a ben 10 atmosfere). Anch’esso interessante dal punto di vista tecnico ma difficile da digerire sotto l’aspetto estetico. Per noi italiani, ripeto, perché all’estero le vendite furono più che soddisfacenti, tanto che la tendenza per così dire all’eclettismo estetico perdurò con invenzioni ardite nel 2010 (quando accanto al marchio Gérald Genta comincia a comparire quello Bulgari) e nel 2011, l’anno della vendita a LVMH. Il cronografo a quattro lancette retrograde, con ore saltanti, cassa in acciaio (da 45 mm di diametro) e lunetta in ceramica, è ancora una volta pregevole da un punto di vista tecnico, ma segna un momento davvero confuso per quanto riguarda l’estetica, com’è possibile rilevare nella vista laterale.
Sia ben chiaro: nulla nasce per caso e l’incontinenza estetica proviene da precise richieste di alcuni mercati esteri; ma accadeva che i gusti cominciassero a mutare anche laddove imperava quel che definisco il “tamarro style”, sul quale forse vale la pena di spendere poche rapide parole. Chiassosi, evidenti, ridondanti e poco o nulla inclini all’understatement, gli orologi “tamarro style” hanno progenitori ricchi che spaziano dal Franck Muller di una volta a (persino) certe versioni del Royal Oak Offshore. Tamarri perché richiesti dal desiderio di gridare la propria ricchezza in certi mercati emergenti (allora) come quello russo; ma anche perché in ciascuno di noi c’è un angolo o un momento tamarro, in ciascuno di noi è in agguato il tamarro magari parziale o temporaneo. Negarlo sarebbe bugia e il “tamarro style” è ancor oggi una solida realtà di mercato, trasversale in ogni fascia di prezzo. Ma Bulgari decide di cambiar strada.