Eventi

Le cronache di PDV: al cinema, a vedere “First Man”

{"autoplay":"false","autoplay_speed":"3000","speed":"300","arrows":"true","dots":"true","loop":"true","nav_slide_column":5}
Slider Nav Image
Slider Nav Image
Slider Nav Image
Slider Nav Image
Slider Nav Image
Slider Nav Image
Slider Nav Image

Paolo De Vecchi racconta “First Man”, fra rievocazione cinematografica e ricordi di vita reale. Con un’attenzione speciale agli orologi di Omega: presenti sul grande schermo, ma con discrezione. Perché la Storia, quella vera, non ha bisogno di enfasi

oblò, nemmeno per intero e con lo sguardo il più delle volte costretto ad acute angolature. Esattamente al contrario di tutta la prima parte del film, fatta di terrificanti voli sperimentali sull’aereo-razzo X15 e di missioni dove ogni rischio corso e superato eroicamente rappresentava “un errore in meno per la missione successiva”. Il tutto avvolto dal frastuono dei motori, dai tonfi di porte blindate che si chiudono ermeticamente, di bulloni avvitati e svitati, maniglie tirate, pulsanti schiacciati, spie luminose e parlanti, tute pressurizzate e maschere a ossigeno. Niente di elettronico, quindi, tutto un mondo meccanico e uomini che fanno calcoli, a volte tanto complessi quanto veloci, con carta e matita.

Niente computer sulla plancia di comando, ma leve e manometri con lancette che segnalano in un movimento continuo ogni genere di misura, compreso il conteggio dei secondi di accensione dei razzi per raggiungere gradi di rotta o quote d’altitudine. E la costante presenza di sua eccellenza l’orologio: rigorosamente meccanico e funzionante grazie alla carica manuale, sissignore, perché lassù il tempo davvero è tiranno e bisogna trattarlo da osservato speciale. Un’accensione razzi di qualche secondo in più e si va fuori orbita, se l’ossigeno entra in riserva non si respira più e l’allunaggio è visivo e strumentale. A limite è una questione di vita o di morte: comunque sia, è dalle lancette che dipende in buona misura la riuscita di una missione (ed è interessante notare un certo parallelismo con la navigazione per mare e la settecentesca ricerca della longitudine).

Nel caso specifico l’orologio è un Omega, un marchio per tutti e a onore di tutti, perché a bordo un segnatempo, secondo i protocolli Nasa, doveva esserci e Omega aveva brillantemente superato i test “da astronauta”. Nel film il marchio di Bienne appare sotto forma di cronometro nel centro volo della Nasa, come cronografo sulla tuta degli astronauti e con la sobria eleganza tipicamente anni ’60 in un modello d’oro durante la vita familiare e civile di Armstrong. Senza invadenza, evviva, visto che non si tratta di un “product placement”, ma di una ripresa di quanto accaduto nella realtà, cosa che in quanto vera non ha bisogno di enfasi. Un fatto su cui Omega ha in seguito giustamente e ben lavorato a livello di ricerca e di comunicazione, supportando anche l’uscita del film con il paragone tra il primo uomo e il primo orologio sbarcati sulla Luna. Un ottimo modo di scaldare i motori su quanto verrà lanciato l’anno prossimo, 50° anniversario di quella storica data. ”'”><\/script>‘