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Orologi scheletrati, tendenza o tradizione?

Mestiere d’arte che vanta radici antiche, la scheletratura in passato era destinata a pochi. Oggi invece è ormai un trend incontrastato. Trasformata nell’estetica, modernizzata nella tecnica, è diventata “democratica”

Sia chiaro: anche se gli orologi scheletrati (skeleton o squelette che dir si voglia) sono tornati prepotentemente di moda negli ultimi anni, appartengono alla tradizione. Fanno parte della storia dell’orologeria, anzi dell’alta orologeria: rappresentano quasi una forma d’arte, o almeno di artigianato artistico, sviluppata da secoli. La scheletratura trasforma infatti il movimento in una sorta di merletto, un pizzo meccanico completamente traforato.

In passato, esistevano artigiani specializzati che impiegavano intere giornate di lavoro per eliminare con lime e seghetti quanto più metallo possibile da ogni componente del movimento. Assottigliavano al massimo platine, ponti, ruotismi, li riducevano all’osso (da qui forse il nome, “scheletrati”) fino al limite consentito dal cedimento strutturale; si fermavano, cioè, solo per evitarne la rottura. L’effetto finale dipendeva tutto dall’abilità e dall’esperienza del maestro “scheletratore” (ammesso si possa dire così), che lavorava secondo il proprio estro su un calibro pre-esistente.

Si trattava insomma di una serie di operazioni delicatissime che rispondevano a esigenze puramente decorative. E il risultato, seppur notevole sotto il profilo del métier d’art, in tempi recenti poteva talvolta non incontrare i gusti del pubblico perché troppo manierato, se non perfino lezioso. La scheletratura venne quindi riservata a pochi, se non rari, esemplari dalla vocazione elegante, nel segmento più alto del mercato. Questione di costi e di gusti.

Oltretutto gli orologi scheletrati più tradizionali comportavano (quasi) sempre due problemi. Uno: erano estremamente fragili, o comunque più fragili di quelli con movimenti “al pieno”; e andavano perciò trattati con la massima attenzione. E, due, potevano creare qualche difficoltà di lettura, dato che le lancette (anch’esse talvolta scheletrate e assolutamente prive di materiale luminescente) si vedevano a fatica sullo sfondo lavorato.

Poi… poi ci fu una piccola rivoluzione. All’inizio degli anni Duemila, i progettisti di Cartier inventarono un nuovo tipo di scheletratura: tecnica, funzionale prima ancora che estetica. Ad avere l’idea, in particolare, fu una donna, Carole Forestier-Kasapi, tuttora responsabile della creazione dei movimenti della Maison. Che realizzò dei calibri scheletrati del tutto innovativi, dall’aspetto essenziale, quasi minimale. Sembravano sculture meccaniche e avevano un’architettura mai vista fino ad allora.

Soprattutto, nascevano scheletrati già in fase di progettazione, non erano frutto del lavoro certosino di esperti artigiani. Li si studiava al computer in ogni minimo dettaglio, con i componenti sviluppati prima da specifici programmi di software e poi da macchine a controllo numerico con tolleranze micrometriche. Cosa che li rendeva più resistenti (nei limiti di un’organica fragilità) e soprattutto molto, molto meno costosi.

Ecco, gli orologi scheletrati che oggi vanno per la maggiore – e che appartengono a una certa fascia di prezzo – sono tutti i diretti pronipoti di quei primi esemplari di alto lignaggio. Certo, i produttori ne evidenziano lo spirito “giocoso” con caratteri autoironici o con accenti colorati, nei vetri come nei dettagli. E possono piacere o meno (qui non si discutono le opinioni soggettive). Ma hanno tutti un grande merito: aver modernizzato la scheletratura, diventata ora una “complicazione” democratica.