Perché non bisogna mai dimenticare che sono le persone, a far gli orologi. E i dirigenti, ovviamente. Però non sempre, nei grandi gruppi finanziari, si scelgono dirigenti con un lungo curriculum nel settore: spesso si preferiscono i “commerciali” e allora la faccenda si fa complessa. Ma da qualche tempo la musica sta cambiando. Patrick Pruniaux, ad esempio, pur essendo giovane ha una lunga storia d’orologeria che ha riversato in Kering, e più precisamente nelle due marche storiche del gruppo: Girard-Perregaux e Ulysse Nardin. Dal 2017 Patrick Pruniaux è responsabile delle due marche e i cambiamenti di sono visti rapidamente. Poi il Covid-19 ha fatto saltare in aria ogni progetto, ogni programmazione.
«È vero: il Covid-19 ha avuto un impatto devastante sull’economia mondiale. E non conosciamo ancora bene in che modo abbia influenzato l’industria degli orologi, a parte un tracollo delle vendite dovuto anche ad una necessaria interruzione del lavoro in fabbrica», spiega Patrick Pruniaux. «Ma dobbiamo avere il senso della storia e comprendere che l’orologeria svizzera, pur avendo numeri molto bassi, andava bene qualche decennio fa, anche prima dell’euro. E proprio per questo i gruppi finanziari l’hanno scoperta. Se facciamo un confronto con quei tempi, pur in una situazione che qualcuno considera disastrosa, le dinamiche dell’orologeria rimangono comunque positive.
I ridimensionamenti attuali sono relativi ad una situazione che comunque stava generando qualche problema proprio per aver aumentato troppo la produzione. Noi lavoriamo in una nicchia che deve pur sempre rimanere tale. Quindi anche se ci saranno dei cambiamenti per qualche tempo io non ho paura. Resto positivo riguardo al fatto che sarà comunque presente un appetito riguardo all’industria degli orologi, soprattutto nel segmento in cui si collocano Girard-Perregaux e Ulysse Nardin. Un appetito che rimarrà forte.
Questo, di conseguenza, non cambia niente per quanto riguarda la strategia da utilizzare e il modo in cui operiamo con i nostri marchi per proporre orologi di qualità superiore e con una grande storia. Ovviamente ci sono cambiamenti sulla realtà commerciale che dovremo affrontare, ma la cosa può anche voler dire nuove opportunità da gestire in quella che probabilmente sarà una rivoluzione del mercato».
Nel nostro settore lei è uno dei pochi ad avere contemporaneamente una lunga storia nell’orologeria tradizionale, ma anche una forte esperienza con marchi “moderni” come Apple, basati su un marketing pressante. Pensa possa essere utile per il mondo degli orologi tradizionali?
«Mi consenta di essere parzialmente in disaccordo con lei su quel “pressante” perché non vedo Apple come un forte marketing brand, ma come un forte prodotto brand. In Apple è il team del prodotto a guidare, non il marketing, anche se ciascuno degli altri reparti ha una propria importanza. Le persone che sviluppano il design devono saper integrare quel che il consumatore desidera, esteticamente, con l’efficienza, la praticità del prodotto stesso», sottolinea Patrick Pruniaux.
«Stavo leggendo un libro riguardo al design thinking e la parola usata era “empatia”. Questa parola è molto interessante perché sono arrivato a pensare che il marketing è empatico su grande scala, su un pubblico ampio. Mentre l’atto della vendita si basa sull’empatia fra due individui. Io, venditore, sto parlando con te, solo con te e utilizzo l’empatia per capire chi sei e proporti il prodotto più adatto per te. Quindi, in fin dei conti, io credo che parlare di design thinking empatico su larga scala abbia un senso.
E lo sappiamo bene perché nel tempo Apple ha prodotto e venduto tantissimi oggetti che nel momento in cui li guardi ti fanno pensare “ma ha veramente senso?”. Ricordo, e non mi vergogno nel dirlo, che la prima volta che ho visto qualcuno usare un iPad ho pensato “qual è lo scopo, il punto dell’usare un iPad? Serve davvero? Se hai un computer perché dovresti aver bisogno di un IPad?”. Sei mesi dopo stavo usando il mio iPad. Non è tanto marketing, quanto la capacità di pensare oggi quale sarà l’appetito del futuro. A ben vedere sia pure in modo differente, è quello che cerchiamo di fare noi che produciamo orologi tradizionali».
È questa, la strada per parlare ai giovani di prodotti in un certo senso “vecchi” come gli orologi meccanici?
«Sì, certo, sono convinto che sia necessario trovare nuovi modi per alimentare l’interesse nei confronti dell’ingegno e delle altre qualità necessarie per produrre gli orologi. Ma dobbiamo parlare in modo profondo, non superficiale, non semplicemente per spingere la vendita immediata. Posso spingere qualcuno a comprare qualcosa che non gli è necessario, ma se poi l’oggetto che ho venduto finisce in un cassetto, allora ho perso per sempre una persona interessata al mio prodotto».
Questo significa che lei sta lavorando sulla nuova reputazione dei due marchi?
«Mi piace la parola reputazione. Penso che abbia un significato profondo e multiforme», si entusiasma Patrick Pruniaux. «Reputazione è qualcosa su cui devi lavorare tanto, come se non ci fosse un futuro, ma dall’altra parte devi essere consapevole che le cose non accadono da un giorno all’altro soprattutto se la nostra visione è a lungo termine. Ma al tempo stesso dobbiamo e possiamo essere molto bravi già oggi. Quando si guarda nell’industria del lusso al nostro successo, come ha detto anche lei, la nostra reputazione ha un peso determinante e per questo motivo abbiamo bisogno di riorganizzarci correttamente. Per essere certi che la nostra reputazione sia riconosciuta, compresa. E dobbiamo fare in modo di sottolineare lo stesso messaggio, essere sempre coerenti nelle forme con cui trasmettiamo questo messaggio. La reputazione è fiducia e noi dobbiamo essere in grado di spiegare – a parole e nei fatti – che di noi ci si può fidare».
Pensa che nel futuro sia possibile fare qualche economia di scala fra Ulysse Nardin e Girard-Perregaux?
«Se con economia di scala intende uno scambio di movimenti o tecnologie, direi proprio di no. Al contrario, vogliamo mantenere le due marche completamente indipendenti l’una dall’altra. E in questo senso stiamo facendo investimenti importanti, proprio per mantenere la loro indipendenza. L’unico punto in comune fra le due marche devo essere io, ma al tempo stesso devo fare in modo che ognuna agisca rispettando la propria storia, la propria vocazione. Certo, può anche accadere che di fronte ad un problema tecnico si consulti un ingegnere dell’altra marca, ma ciò vale solo per una specifica occasione e per una specifica competenza. Non amo le aziende che usano un solo capo tecnico per cinque o sei marche».
In realtà pensavo più a componenti come i quadranti o le spirali.
«Beh, questo è diverso. Nel gruppo ci sono fabbriche come la Donzé Cadrans che lavorano anche per conto terzi. In effetti non sarebbe logico incaponirsi nella separazione fra le marche fino a questo punto. E stiamo lavorando per usare gli straordinari quadranti in smalto di Donzé – che era stata acquisita da Ulysse Nardin nel 2011 – anche negli orologi Girard-Perregaux».
Di lei molti apprezzano la vastità delle sue competenze, che vanno da quelle tecniche a quelle commerciali. E la comunicazione? La crisi del Covid-19 ha enormemente accelerato il peso della comunicazione telematica. Che va un po’ reinventata, credo.
Grazie per le sue parole. Dopodiché sì, certo: molto, se non tutto sta cambiando. Ma deve trattarsi di una comunicazione più “alta” della media attuale. Vede, io sono un grande ammiratore di Joseph Kessel (giornalista e scrittore francese, 1898/1979, autore, fra l’altro, del romanzo da cui è stato tratto il film “Bella di giorno”, N.d.R.). Quando oggi leggi i suoi articoli, anche se risalgono a molti anni fa, hanno ancora un peso. Credo che si debba cercare questo, competenza e capacità di comunicarla. Sia da parte nostra che di voi giornalisti. Anche in questo caso è una questione di reputazione, di costruire una catena di fiducia. Verificabile».
Conclude Patrick Pruniaux: «Oggi il punto non è tanto comunicare per vendere gli orologi, quanto creare agitazione / eccitazione / interesse su tutta l’orologeria. Bisogna spiegare cosa facciamo e produciamo, sia come Svizzera, sia come singole marche. E in un certo senso anche i negozianti fanno parte della comunicazione nel suo complesso. In Italia ce ne sono di molto bravi, in questo senso, e io credo che la qualità del nostro futuro dipenda molto anche dai negozianti non solo per una questione meramente commerciale. Bisogna saper trasmettere – oggi e nel futuro – un messaggio trasparente e completo sui nostri prodotti. È questa la chiave».