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Amarcord: Journe e io, quella volta che…

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Journe, ancora lui.
L’ho conosciuto più o meno nel 1995, quando ancora non aveva fondato la propria marca d’orologi. Alla fiera di Basilea si aggirava un po’ arcigno nello stand dell’Accademia Orologiera dei Creatori Indipendenti, fondata nel 1985 da Svend Andersen e Vincent Calabrese. Vincent è da sempre un amico e vado subito a chiedergli chi diavolo è quel tizio che sembra criticare tutto e tutti. «È François-Paul Journe, il marsigliese. Lascialo perdere: ha un caratteraccio. Ma sa quel che dice ed è uno dei migliori».

Beh, può un giornalista lasciar perdere, di fronte ad una introduzione di questo tipo? Certo che no! Vado da Journe e mi presento. Parte con un contentino («Seguo quel che scrivi: fai bene a parlare degli orologiai indipendenti»); ma non mi dà un briciolo di soddisfazione (segue quel che scrivo, certo, ma questo non implica alcun giudizio di merito: scrivo cose intelligenti o sciocchezze?). E poi parte nella demolizione dei colleghi. Una demolizione sistematica, ma sempre accompagnata da spiegazioni dettagliate. Che si concludono regolarmente con un: «Posso fare di meglio».

Gli chiedo di poter vedere un suo orologio, allora. Perché non ce ne sono, di suoi, fra quelli esposti. François-Paul Journe mi guarda con un sorriso beffardo, solleva il polsino e per due secondi mi mostra un proprio orologio. Poi mi pianta in asso. Io sono perplesso e sto per rigurgitare una parolaccia. Scoprirò dopo qualche giorno che Journe mi ha regalato una formidabile lezione d’orologeria. Aveva ragione su tutto, accidenti a lui!

Passa il tempo…

Arriviamo al 1999 e vedo per la prima volta un orologio “targato” F.P. Journe Invenit et Fecit. Amore a prima vista. Alla fiera di Basilea (quando era ancora il miglior luogo in cui scoprire le novità), Journe ha uno stand piccolissimo e seminascosto. Ma fa sensazione il suo Tourbillon Souverain, ne parlano in tanti. François-Paul Journe non è quasi mai al proprio stand o quando c’è lo trovo occupato in conversazioni fittissime.

Fortunatamente ho l’abitudine di rimanere per l’intera durata della fiera (è negli ultimi giorni, che accadono tutte le cose da sapere…) e trovo finalmente il momento giusto. Parliamo di coppia della molla, del peso ideale per la gabbia del tourbillon, di estetica, parliamo di tutto e dimentichiamo persino di mangiare. E per me gli orologi di Journe (Invenit et Fecit) diventano un oggetto del desiderio.

Beh, quasi. Forse l’ho già detto, ma continuerò a ripeterlo: io non sono un appassionato di orologi. Non che ci sia qualcosa di male, in questa passione, ma io normalmente non ho alcuna pulsione al possesso di orologi. Non ho una collezione di orologi e a dirla tutta raramente porto al polso un orologio. Perché non lo considero corretto. Non voglio dare l’impressione di avere una preferenza per questo o quel fabbricante. A me piace l’orologeria, ovvero le persone e i percorsi che fanno nascere gli orologi. Mi piace il dietro le quinte, mi piacciono i sogni, i progetti, “la lunga tortuosa strada” (sì, il riferimento ai Beatles è voluto) che porta un orologio al nostro polso. Anche se il mio polso non godrà mai di un Journe, lo so, sono ugualmente felice.

A colpirmi non è solo la parte tecnica («Il tourbillon lo hanno fatto in tanti, però io l’ho fatto meglio»), ma anche quella estetica. Un incrocio fra l’orologio del Capitano Nemo – quello di 20.000 leghe sotto i mari, di cui Jules Verne aveva scritto nel 1870 – e lo stile di Breguet. E questo m’induce a pensare che Abraham-Louis Breguet, avesse operato in quegli anni, avrebbe disegnato proprio così i propri orologi. François-Paul Journe, il marsigliese, sogghigna d’approvazione e comprendo la sua affinità con Breguet, il suo senso di appartenenza ad un filone orologiero che parte da lontano e si proietta nel futuro. Come, del resto, sempre avviene nella migliore tecnica del settore. E non solo.

Journe, Büsser e Winston

Incidentalmente, è proprio in quell’occasione – penultimo giorno di Basel 1999 – che vedo Maximilian Büsser entrare nello stand di François-Paul Journe. Max lavorava da un anno allo sviluppo di orologi per conto di Harry Winston. Credo avesse già in mente la collezione Opus e per quanto ne so in quello stesso 1999 aveva già parlato con un altro orologiaio indipendente della propria idea. Che era quella di creare una collezione – Opus, appunto, e già questa adozione del latino riporta a Journe Invenit et Fecit – in cui vestire di bello i movimenti degli artigiani. Straordinari da un punto di vista tecnico, ma spesso un po’ meno straordinari sul piano dell’estetica.

La mia personale impressione, suffragata da alcune piccole confessioni, è che Büsser sia rimasto colpito dal Tourbillon di Journe, certo. Ma che sia rimasto a bocca aperta di fronte al Cronometro a Risonanza di cui Journe mostrava a pochi, pochissimi, un prototipo. Senza spiegare nulla, si badi bene. Era una specie di esame tecnico per gli interlocutori. Ho avuto la fortuna di superarlo solo per un caso che non sto qui a spiegare, ma sta di fatto che da allora “Brontolo” Journe ed io andiamo d’accordo come due veri amici.

Credo che anche Büsser si sia reso conto che razza d’orologio eccezionale fosse il Chronomètre à Résonance e ho l’impressione che abbia cambiato totalmente i propri piani. All’improvviso.
Per quanto ne so è iniziata un’animatissima discussione, durata mesi e con momenti anche aspri. Büsser, spesso mansueto e forte come un Labrador, era disposto a molto pur di avere l’anteprima del Risonanza, mentre Journe non intendeva arretrare di un passo. «Prima lo presento io e poi, magari, tocca a te. Per realizzare il Cronometro a Risonanza nella versione da polso ci ho messo tanti anni che non lo mollo a nessuno. È mio e tale deve rimanere».

Alla fine, come sempre, venne trovato un faticoso accordo con le seguenti modalità. «Ti concedo sei movimenti con il tourbillon presentato nel 1999. Ti concedo sei movimenti del Risonanza, che però presento io per primo nel 2000, con il mio nome. E ti concedo infine in anteprima sei movimenti automatici con un solo bariletto in grado di fornire autonomia per cinque giorni, il primo al mondo, che presenterò nel 2001. Ma tu non fai uscire nulla fino al 2001, sia ben chiaro».

Il resto è storia. La combinazione si rivela in un piccolo capolavoro di marketing “buono”, perché onesto e trasparente. Un’operazione che spedisce nello spazio la stella di François-Paul Journe − facendolo conoscere ad un pubblico più ampio −, dando al tempo stesso ad Harry Winston una credibilità forse impossibile da ottenere, senza la geniale idea di Max Büsser.
Me lo ricordo bene.