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Internet Time. La storia degli orologi elettronici – Quarta uscita

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Dopo gli anni Ottanta, eccoci al 2000. Aspettando gli smartwatch, arriva l’Internet Time e spariscono i fusi orari…

Millennio nuovo, orologi digitali nuovi. Così è stato. Il passaggio al 2000 sarà segnato da una grande novità. Parliamo della seconda rivoluzione Swatch, sempre per merito del vulcanico “numero uno” Nicolas Hayek. Così, dopo avere riportato in vita nel 1983 l’orologeria svizzera, a due anni dal cambio secolo ha avuto un’altra idea geniale: l’Internet Time. Al solito si è trattato di un mix tra pensata hi-tech e strategia marketing. Per la precisione il progetto venne annunciato il 23 ottobre 1998 in pompa magna con invitato d’onore Nicholas Negroponte. Nel 1999 escono i primi modelli.

Cos’è l’Internet Time

La tesi è semplice. Perché non progettare orologi che misurino in modo universale il tempo? Detto, fatto. Nicolas inventa, appunto, l’Internet Time. Un sistema di calcolo che utilizza lo stesso orario in ogni parte del mondo e momento della giornata, eliminando fusi orari e differenze geografiche. Non ore e minuti durante le 24 ore, bensì mille unità decimali chiamate .Beats. Dove 1 .Beat corrisponde a 1’ e 26,4”. Ogni giorno @000 inizia a mezzanotte di Biel Meantime (BMT) in Svizzera, sede storica Swatch.

I modelli includevano più funzioni: due fusi orari, timer, cronografo e sveglia, il count down e anche una piccola animazione. Diverse le versioni: cassa in plastica, alluminio, skin (sottilissimo) e Access. Diciamo che il sistema, decisamente originale, non era certo comodo per noi umani, che ragioniamo da millenni in modalità analogica. Per fortuna il quadrante mostrava sempre il doppio orario, altrimenti fare il conto per scoprire che @484 sono le 11 am 37’ e 11” sarebbe risultato decisamente scomodo. Alla fine l’Internet Time, come detto prima, si rivela più un’idea marketing che hi-tech. Ma servì a porre il mattoncino successivo degli orologi elettronici.

I modelli luminosi Timex

Già qualche anno prima della fine del XX secolo escono i primi digitali in grado di scambiare informazioni col computer. Nel 1994 Timex, azienda del Connecticut, si allea con Microsoft e posiziona sul mercato Datalink 50. Un digital watch in grado di memorizzare cinquanta contatti e brevi note nelle memoria interna. Ma la vera novità, non è l’archiviazione in memoria, bensì la connessione senza fili con pc Windows. E qui scende in campo l’azienda di Bill Gates che progetta un originale sistema di trasmissioni luminose.

Come funziona? I numeri in rubrica vengono prima inseriti nel computer, poi trasferiti all’orologio in modalità wireless-ottica. Per farlo era sufficiente posizionare l’orologio vicino al monitor e avviare la procedura di trasferimento. Sul display compariva un codice composto da linee orizzontali, lette dal sensore ottico di Datalink. Per quegli anni una tecnologia da fantascienza. La memoria venne estesa a 150 dati, ma l’orologio non riscosse molto successo.

Windows da polso

Andò meglio agli Spot Watch, acronimo di Smart Personal Objects Technology. Un progetto presentato dallo stesso Gate nel 2002 al Comdex. In questo caso Microsoft pensava a un insieme di prodotti “Personal Home”. Uno dei primi esempi di Internet degli oggetti (Iot) incubato dai big mondiali della tecnologia nei successivi dieci anni. Fossil, Suunto e Tissot abbracciarono la proposta definita da Gates come: «Prossima rivoluzione del computer».

L’idea era di mettere al polso il nascente Windows Mobile per dotare il microschermo di funzioni grafiche. Furono sviluppati diversi prototipi, ma il mercato rispose in modo fiacco. Colpa del software che per problemi di diritti non si interfacciava con altri sistemi. Ma all’orizzonte stava facendo capolino Android. Sistema open, cuore dei futuri smartwatch. Siamo nel 2008.

Nella prossima uscita: XXI secolo, è l’ora degli smartwatch