Approfondimenti

L’impagabile rapporto fra prezzo e qualità

Il rapporto fra prezzo e qualità di un oggetto è la base del commercio. O almeno dovrebbe esserlo. Ma…
Perché la faccenda è meno semplice di quanto non appaia. Stessimo parlando – che so – d’oro, sarebbe una passeggiata: tot carati, valutazione del giorno, lo metti sulla bilancia e il prezzo giusto lo hai lì chiaro, visto che la qualità è ben codificata, appunto, dalla percentuale d’oro in lega. Uguale per tutti e in tutto il mondo.

Ma proviamo a passare al caffè. Una volta mi hanno regalato una bustina di preziosissimo caffè delle Blue Mountains. Preparato con tutte le cure del caso mi ha deluso: a me sembrava fatto con gli avanzi della moka. O il famoso (famigerato) Kopi Luwak indonesiano (costa almeno sei volte il Blue Mountains), quello che la donnola indonesiana (Luwak) mangia dalla pianta del caffè espellendo poi i semi non digeriti. I semi vengono raccolti uno per uno e poi venduti come specialità fragrante e delicata. Magari sarà anche buono, ma il caffè defecato, dal mio punto di vista, fa seriamente schifo.

Il rapporto qualità prezzo, insomma, non è mai una semplice espressione aritmetica: c’è sempre molto di personale.

Il rapporto fra prezzo e qualità

L’idea di questo articolo me l’ha suggerita un lettore, che, dice testualmente: «Inizino anche certi giornalisti a non essere zerbini con le Case di orologeria, ad esempio incensando orologi con un rapporto qualità prezzo imbarazzante». Beh, fermo restando il fatto che i colleghi non hanno certo bisogno della mia difesa d’ufficio, devo però dire che talvolta il giudizio è difficile perché dipende da variabili non facili da valutare. Variabili personali, variabili che fanno la differenza. Variabili che trasformano un banale (e forse anche arido) concetto aritmetico – quanta qualità, quanto prezzo e vediamo il risultato – in cultura vera. Un paio di esempi.

La mia passione è la musica, tutta la musica. Mahler, lo ammetto, mi annoia. Ma nell’adagetto della sua Quinta sinfonia c’è una pausa straordinariamente espressiva, che – per me – trasforma totalmente lo stucchevole mélo (non a caso usato da Luchino Visconti per commentare l’ultima scena di Morte a Venezia) in espressione di un dolore profondo, se il Direttore interpreta quella pausa nel modo giusto. Qual è il rapporto fra prezzo e qualità, nei due diversi casi, per me?

O la “nota blu” del blues, quella strana nota che non è un bemolle vero, ma una nota calante di un pochino ma non troppo. Basta poco a scatenare emozioni potenti oppure un senso di falsità, di poco espressivo. Quanto vale, in un rapporto fra prezzo e qualità, quella nota? Se volete, vi chiedo di andare ad ascoltare uno dei tanti concerti dal vivo in cui Eric Clapton suona Old Love. Due strofe e arriva l’assolo. Talvolta inizia con una straziante nota tenuta a lungo, con la corda della chitarra leggermente “tirata” (la tecnica si chiama bending). Quella nota è pura espressione di un dolore profondo. Diversamente è una rappresentazione del dolore, eseguita da qualcuno che quel dolore lo conosce solo dall’esterno. Quanto vale, quella nota? Quanto vale l’emozione che anche un orologio può farci provare?

In buona sostanza: una cosa è la valutazione tecnica del rapporto fra prezzo e qualità di un orologio, confrontato con un altro orologio nella stessa fascia di prezzo e con caratteristiche paragonabili. È altra cosa, ben altra cosa, il rapporto fra prezzo e qualità quando valutiamo questo rapporto in relazione alle nostre personali reazioni.

Il patto con i lettori

Il mio personale patto con i lettori, allora, è questo. Quando valuto il rapporto fra prezzo e qualità di un orologio, parto come sempre dal confronto con uno degli orologi di riferimento in una determinata fascia di prezzo. Rolex, ad esempio. In quella fascia di prezzo tutti gli orologi (specialmente se industriali) devono necessariamente vedersela con Rolex. Dopodiché entrano in ballo altri elementi. Spassionatamente, oggi è migliore un Omega con movimento Co-Axial. Che costa anche meno, pur essendo totalmente insensibile ai campi magnetici e dotato di uno scappamento rivoluzionario. Ma si vendono forse più Omega che Rolex? No. E quindi bisogna tener conto di un qualcosa che sfugge, ma conta, conta eccome.

Discorso simile può essere fatto per Patek Philippe nella sua fascia di prezzo e così via. Non è facile, valutare ‘sto benedetto rapporto fra prezzo e qualità, anche se siamo solo all’inizio della materia. Ma torniamo al patto con i lettori. Per quanto mi riguarda cerco sempre di indicare con chiarezza alcuni elementi, compresa l’emozione mia, personale, causata da un determinato orologio. Non lo dico per convincere qualcuno che se piace a me deve piacere a tutti. Al contrario, lo dico per mettervi in guardia: potrei non essere obiettivo come dovrei. E vorrei.

È migliore, il mio patto con i lettori, rispetto a quello di un altro giornalista? Assolutamente no. È solo più chiaro, forse, perché affronto l’argomento senza remore. Ma sono certo che tanti altri giornalisti farebbero lo stesso. Semplicemente, pochi dispongono di spazio sufficiente.

Il rapporto imbarazzante fra prezzo e qualità

E torniamo alle osservazioni del già citato lettore e di altri, molti,  come lui.

Anche al netto dell’emozione la faccenda rimane complessa, perché certe volte è vero, verissimo, che il rapporto tra prezzo e qualità non sempre è dei migliori. Prendiamo gli orologiai d’arte, ad esempio. Producono poche centinaia di orologi ogni anno. Alcuni – quelli di successo – si spingono a poche migliaia. È chiaro che non possono godere delle stesse economie di scala che consentono ai marchi affermati di contenere i prezzi. Ma dobbiamo tarpare loro le ali per questo? Se un critico nota carattere, abilità, inventiva, passione per il proprio lavoro e rispetto per il compratore, deve eliminarli dal proprio orizzonte solo perché non sono (ancora) in grado di dare un prezzo accettabile al proprio lavoro? O vogliamo costringerli ad usare bilancieri, scappamenti, persino interi movimenti standard?

Molti anni fa venni seriamente accusato di sprecare lo spazio del giornale per cui scrivevo proprio dando spazio (definito “inutile”) a «gente che non avrebbe mai comprato pubblicità, gente che mai avrebbe potuto fare orologi popolari». Era vero. Ma l’orologeria è anche questo. Artisti che vorrebbero aver prezzi migliori, ma non certo accettando compromessi qualitativi per loro insopportabili. E dovremmo per questo negar loro il futuro? Se sono onesti, se non giocano ad imbrogliare i compratori, per quale ragione non parlare di loro?

Come vedete, insomma, la cosa è molto più complessa di quanto potrebbe apparire. Spero di aver spiegato un po’ meglio il nostro punto di vista e i nostri metodi di lavoro. E siamo sempre qui pronti a discutere, a condividere i ragionamenti e anche le emozioni. Che, in definitiva, diventano sempre più importanti. Soprattutto in un lavoro che ormai produce opere d’arte – più che utensili per la misurazione del tempo.