Attualità

Dietro le quinte. La manifattura e la legge della catena

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Scusate il ritardo, ma dovevo necessariamente fare dei pesanti lavori di manutenzione sul computer. Fatto – e sono di nuovo qui a parlare di manifattura.

Dopo i primi due articoli su questo argomento, sono arrivati da parte dei lettori contributi molto interessanti. Qualcuno proviene da scalmanati che “le manifatture non esistono e poi chissenefrega”. Altri che “tanto sono tutti bugiardi” e altri ancora che “a me basta che sia ben fatto e mi piaccia”. La manifattura questa sconosciuta, potremmo dire. Ma la vera domanda dovrebbe essere: cosa dobbiamo intendere, con il termine manifattura? È proprio questo, il punto. Sembra che di cosa sia o dovrebbe essere una manifattura ognuno abbia una propria idea. Certe volte un po’ romantica.

Una manifattura deve proprio fare tutto “in casa”?

Breguet – che era Breguet – ricorreva a fornitori esterni. Le fabbriche ginevrine facevano produrre su commissione ebauches (sbozzi, movimenti grezzi) ai contadini delle montagne al confine con la Francia. Altri ancora correvano su quelle montagne (spesso a rischio della vita: le strade sono ancor oggi abbastanza pericolose), al minimo accenno di disgelo, per comprare sbozzi che i furbi contadini/orologiai avevano prodotto durante il lungo inverno e vendevano al miglior offerente. Qualcuno aveva messo fabbrica direttamente fra le montagne, ma comunque ognuno faceva produrre alcune componenti a persone specializzate. Esterne.

Del resto – pensateci bene – già nel Rinascimento le botteghe artistiche non implicavano certo che un dipinto venisse interamente eseguito dal pittore che firmava l’opera. E Raffaello senza una schiera di “allievi” non avrebbe mai avuto abbastanza tempo per la Fornarina.

Il concetto di “fare tutto da sé” è una visione romantica di certe forme d’arte. Che fa rima con l’immagine altrettanto romantica dell’artista che disprezza la vil moneta per darsi al “vissi d’arte, vissi d’amore” (citazione dalla Tosca di Giacomo Puccini). Balle.

Ricordo che nei miei primi viaggi in Svizzera, per visitare le fabbriche d’orologi, per me era risolutivo l’elenco dei fornitori. Se era un elenco equilibrato dal punto di vista qualitativo, allora tutto andava bene. Perché ogni orologio è frutto di una catena di componenti. E la forza di una catena è sempre, sempre pari a quella dell’elemento più debole. Per cui sì, caro Beppe, l’idea della Manifattura che fa tutto da sé è romantica, suggestiva, ma non è detto che renda migliori gli orologi. È uno spettacolare concetto di marketing con il quale, ad esempio, hanno dovuto fare i conti gli orologiai artigiani, anche i più grandi. Non sempre ottieni la migliore qualità, quasi sempre finisci fuori prezzo.

Cominciamo con qualche considerazione finale

Primo: la qualità migliore possibile, ma sempre in relazione al prezzo. Per intenderci: Patek Philippe continua imperterrita ad essere uno dei campioni del rapporto fra prezzo e qualità, pur costando cara. Chi punta a rendersi concorrente di Patek Philippe deve rimanere nel recinto dei prezzi Patek, altrimenti rischia di andare “fuori prezzo”. Ma la qualità migliore in relazione al prezzo te la offre anche Swatch, nella propria fascia di prezzo. E altrettanto fanno Rolex, Omega e tanti altri marchi capaci di fornire il massimo al minor prezzo.

È questo rapporto fra prezzo e qualità che ha reso grande l’orologeria svizzera, non dimentichiamolo. Facendo scomparire in quattro e quattr’otto gli straordinari, ma troppo costosi, prodotti inglesi e francesi. Non bisogna mai dimenticare che tutte le marche svizzere, anche le più antiche, diventano quel che sono nell’Ottocento. Più o meno dopo la morte di Breguet: uno dei primi, se non il primo, a insegnare che fare ricorso a fornitori esterni specialisti poteva persino far aumentare la qualità e contemporaneamente diminuire i prezzi. Anche in questo Abraham-Louis Breguet fu un precursore.

È un fatto, comunque, che risalire all’origine di ogni componente è quasi impossibile. Come ha scritto uno storico personaggio dell’orologeria, Beppe Menaldo: “Francamente, credo che il mondo dell’orologeria, ed in particolare quello della fabbricazione in genere ed in special modo quel microcosmo iper-specializzato inerente i movimenti meccanici per orologi, sia una nicchia molto, molto complessa, quasi criptica. Di accesso e comprensione pressoché impossibile. Una nicchia conosciuta, nei suoi meandri e rigagnoli, solo da pochissimi fortunati, oltre che dalle persone che vi lavorano”.

Vero, verissimo. Ma oggi sono in tanti a far da sé movimenti anche relativamente economici. Movimenti innanzitutto progettati “in casa”; progettati da studi specializzati per conto del marchio, poi realizzati all’esterno o in casa (integralmente o parzialmente); movimenti usati in tutta la propria produzione oppure solo in alcuni modelli. Una serie di varianti, appunto, eccezionalmente ampia, sulla quale noi proviamo sempre a fare chiarezza, nei limiti del possibile e nei limiti della logica.

Le polemiche

Recentemente qualcuno, in Inghilterra, ha sollevato polemiche furibonde e decisamente pretestuose su Panerai. Accusandolo di usare movimenti non di manifattura. Qualcuno, ma non io, potrebbe sospettare che si sia trattato di una coda delle delusioni sportive che l’Italia ha inflitto all’Inghilterra. Qualcuno lo ha pensato, ma non io, certo. Credo si sia trattato di una polemica basata sul nulla. La maggior parte dei grandi marchi affianca, come dicevo, orologi con movimenti progettati e realizzati in casa ad orologi con movimenti non di manifattura. L’importante è essere chiari.

Panerai non inserisce il calibro P.9200 fra quelli che definisce in-house e quindi non lo identifica come un movimento “di manifattura”. Sì, avrebbe potuto essere più esplicita sull’origine esterna del movimento, ma basta qualche personalizzazione per convincere i produttori (quasi tutti i produttori) a targare il movimento come proprio. Siamo, in pratica, nella media di un’abitudine del marketing che può essere considerata discutibile, ma non millanta nulla. E del resto nessuno, ma proprio nessuno distingue i movimenti usati fra “di manifattura” e “non di manifattura”. Se non c’è il “di manifattura” è evidente che non lo è. Bastava verificare sul sito, a meno che non si volesse aizzare certi lettori…

Ma è poi così importante?

E qui un po’ di “mea culpa” bisogna farla. Sono caduto, siamo caduti in una piccola trappola di marketing. Dare fin troppa importanza al concetto del movimento di manifattura. Un concetto nato per ragioni storiche sulle quali prima o poi scriveremo. Nel frattempo vorrei concludere con l’interessante considerazione di un lettore, f34: “Secondo me un calibro è di manifattura quando la proprietà intellettuale del progetto è in buona parte della Casa che lo incassa”. Chi è d’accordo?

Perché alla resa dei conti l’importante è sempre la qualità che si è in grado di offrire in relazione al prezzo. Potremmo chiamarlo “indice di dignità”: se nella tua fascia di prezzo sei il migliore, sei il migliore anche se il tuo orologio costa 70 euro o giù di lì.