Potrebbe sembrare strano voler parlare della storia di una delle più conosciute complicazioni, nel settore dell’orologeria “da portare addosso”, per mutuare l’espressione di un noto storico italiano del settore: la carica automatica.
Eppure, ci sono molte cose sull’invenzione della carica automatica che ancora oggi sono ripetute per inerzia. Riportate su testi importanti, vengono perpetuate da innumerevoli citazioni, senza tenere in debito conto ricerche e scoperte di tempi recenti.
Il problema della carica di un orologio
Giusto per contestualizzare, ricordo che due approcci completamente diversi riuscirono a superare il problema della carica degli orologi da persona, un tempo “da tasca”, tradizionalmente effettuato con la chiavetta.
Da un lato, la carica a corona, in cui chi usa l’orologio agisce sulla corona di carica e azionandola ripetutamente ricarica la molla che fornisce l’energia necessaria al funzionamento. Si tratta di un’azione volontaria, elimina la necessità della chiave, ma è pur sempre un’operazione che richiede una decisione e che deve essere compiuta deliberatamente.
Molto più antica fu invece la carica automatica per mezzo dei movimenti di una massa oscillante. Nell’ipotesi che l’orologio fosse indossato, i movimenti del corpo del proprietario causavano gli spostamenti della massa, che poteva essere – come vedremo – di diversi tipi. I quali, con debite precauzioni progettuali, andavano a trasformarsi nella ricarica della consueta molla.
Il problema a fine Settecento
La testimonianza più antica che ci sia pervenuta riguarda un orologio da tasca con rotore pivotato in posizione centrale: esattamente quella che ritroviamo più comunemente negli orologi da polso automatici. Ma non fu il solo tentativo: ricordo che all’epoca – e siamo nell’ultimo quarto del Settecento – lo scappamento più comune era quello a verga, notevolmente sensibile alle variazioni di tiro della molla (pur se compensate dalla conoide), altre strade furono percorse.
Di questo abbiamo testimonianza nelle carte d’archivio e in pochi, rarissimi, esemplari sopravvissuti. In alcuni calibri la massa ruotava per un angolo limitato, dai 40 ai 120 gradi. In altri, addirittura, la massa era posta all’estremità di un’asta, un po’ come nel pendolo: e oscillava, anziché intorno a un asse ortogonale rispetto alle platine, avanti ed indietro, fissata al bordo del movimento.
La carica automatica di Breguet e Perrelet
Andando a leggere la storia di questa invenzione, immancabilmente ci imbattiamo in due nomi cui la scoperta è sempre associata: Perrelet e Breguet.
Scoperte degli ultimi vent’anni hanno portato alla luce e continuano a fornire dati inequivocabili circa una storia differente, con attori diversi. Eppure, nonostante tali ritrovamenti siano stati riportati sulle più autorevoli pubblicazioni di settore e siano stati oggetto di monografie, sembrano ignorati.
La maledizione della carica automatica? Sembrerebbe di sì. Ma come è possibile che su un tema di interesse tanto generale si perpetuino informazioni errate? Cerchiamo insieme di ricostruire la storia di questa leggenda, tanto dura a morire.
Descrizioni dettagliate sulla progettazione dei movimenti a carica automatica si incontrano diffusamente nei testi scritti da Abraham-Louis Breguet, che si riferiva all’orologio “che si ricarica da solo” come “perpetuo”. Per avere un testo che cercasse di ricostruire la storia di tale soluzione si dovrà però attendere il Novecento: più precisamente il 1949, quando Léon Leroy pubblicò la descrizione dettagliata di un esemplare settecentesco dotato di rotore oscillante a 360°, del tutto analogo a quelli moderni.
Gli storici svizzeri
Questa scoperta ebbe grande eco nell’ambiente degli storici dell’orologeria, al punto di indurre Alfred Chapuis ed Eugène Jaquet a scrivere un libro sulla storia della carica automatica, pubblicato nel 1952 con il titolo di La Montre Automatique Ancienne (1770-1931).
I due grandi storici svizzeri esaminarono un’ampia documentazione e videro dal vero l’esemplare presentato da Leroy. Giunsero dunque alla conclusione che l’orologio – non firmato – fosse opera di Abraham-Louis Perrelet, per quanto riguardava il movimento, e di Abraham-Louis Robert per la cassa. Entrambi gli autori operavano a Le Locle, in Svizzera.
In verità, al di là del fatto che l’attribuzione fosse data come “quasi certa”, non fornivano vere prove a supporto: a sostegno della scelta del nome di Perrelet vi erano delle lettere del 1777, da cui sembrava lecito dedurre che fosse l’autore dell’orologio di Leroy.
Gli studiosi elvetici ipotizzarono anche che probabilmente Perrelet si dedicasse da tempo a questo tipo di soluzione, forse dal 1770. E passarono alla conclusione che Abram-Louys Perrelet, per citare il nome completo nella sua grafia antica, ne fosse stato l’inventore.
Sarton, chi era costui?
Il libro era già uscito quando emerse un documento inedito. Un atto scritto da Hubert Sarton, originario di Liegi, in Belgio, in cui questo orologiaio forniva dettagli sulla progettazione e costruzione di un orologio dotato di “movimento spontaneo”. Il documento era stato presentato nel 1778 all’Académie des Sciences di Parigi.
Il nome di Sarton non era mai comparso precedentemente, ma il testo era inequivocabile: Chapuis e Jaquet, per dovere di correttezza, non potevano non tenerne conto. Per l’edizione in lingua francese predisposero quindi un’addenda (un foglio aggiunto all’interno di un capitolo, non numerato), ma non ritoccarono minimamente le edizioni in inglese e tedesco. In ogni caso, pur citando Sarton, gli autori non misero mano al testo e le loro conclusioni circa l’attribuzione della paternità dell’invenzione a Perrelet restarono immutate.
Nell’edizione inglese del 1956, Chapuis aggiunse un intero capitolo dedicato al documento di Hubert Sarton, senza però produrre una vera analisi della soluzione meccanica e concludendo sempre che l’attribuzione della scoperta a Perrelet rimaneva valida.
La cosa più incredibile era, però, il fatto che Chapuis non avesse notato che la puntigliosa descrizione di Sarton corrispondeva fin nei minimi dettagli all’anonimo movimento dell’orologio trovato da Leroy!
La carica automatica nella recente storiografia
Nel frattempo, l’indiscussa autorità di Chapuis e Jaquet ebbe la meglio: l’orologio automatico era sempre citato in associazione al nome di Perrelet.
Si dovette giungere al 1993 perché un altro storico, Joseph Flores, riportasse alla luce la questione, rimarcando quanto l’esemplare di Leroy fosse, veramente con ogni probabilità, opera di Sarton.
Flores pubblicò il suo articolo sulle riviste di orologeria antica e ottenne diversi tipi di reazioni: alcuni lettori si allearono a lui, mentre per la maggioranza “automatico” e “Perrelet” rimasero indissolubilmente legati.
Il ben noto storico Jean-Claude Sabrier ritornò sul tema nel 2011 con la pubblicazione di un estensivo testo sulla carica automatica, intitolato The Self-Winding Watch, 18th-21st Century.
Sabrier, purtroppo, non prese neppure in considerazione i documenti di Sarton. Si limitò, con fermezza, a sostenere di nuovo la tesi che l’autore dell’orologio di Leroy fosse Perrelet.
L’autore accantonò sdegnosamente il nome e gli scritti di Sarton, nonostante nel tempo ulteriori e sempre concordi testimonianze si fossero accumulate a favore dell’orologiaio belga. Per screditare l’attribuzione, Sabrier produsse un documento in cui Sarton figurava come “gioielliere”, nonostante esistessero le prove del fatto che Sarton avesse seguito regolare apprendistato come orologiaio e avesse conseguito la maestria nella disciplina.
Incredibilmente, nel testo di Sabrier figurano però altri documenti. Uno del 1775, in cui l’invenzione della carica automatica è attribuita a Joseph Tlusios. E un secondo, del 1777, in cui l’invenzione è attribuita a Joseph Gallmayr. Pur citandoli, Sabrier prosegue inesorabilmente ad attribuire la scoperta a Perrelet!
La ricerca sulla carica automatica prosegue ancora ai nostri giorni, grazie all’impegno di alcuni studiosi. Tra i quali è d’obbligo citare il nome di Richard Watkins, che pubblicò nel 2013 The Origins of Self-Winding Watches,1773-1779, in cui rianalizzava l’intera questione. Per chiunque fosse interessato alla lettura, l’autore lo ha generosamente messo online: lo si può scaricare gratis qui.
Il mistero, comunque, si infittisce.
Il fatto è che la carica automatica è un’invenzione nata adulta, che nella sua prima versione era già “moderna”. La usiamo da 250 anni, eppure le sue vere origini, come in un feuilleton d’altri tempi, restano per ora avvolte nelle nebbie della storia.