Quando nacquero i primi orologi portatili? Chi riuscì a rendere mobili quegli esemplari che indicavano le ore dall’alto delle torri o nelle celle dei monasteri, azionati dai pesi?
Siamo o non siamo – e in che misura – debitori ed eredi di quel Peter Henlein che la tradizione tedesca vuole costruttore del primo orologio da persona, noto nella letteratura come Uovo di Norimberga?
Dal punto di vista strettamente tecnico, per liberare l’orologio meccanico dalla collocazione statica, da torre o da parete che fosse, il primo problema da risolvere era quello dell’energia. Trovare una fonte di energia che non fosse una massa collegata a una fune, primo insormontabile ostacolo a una possibile mobilità del meccanismo.
L’acciaio di fabbri e armaioli
Nell’Europa tardomedievale, soprattutto in Italia e in Germania, molti si erano dedicati allo studio e alla realizzazione di acciai di qualità con caratteristiche speciali, utili soprattutto per la costruzione delle armature e delle armi. Scatti, cricchetti, ingranaggi non erano solo patrimonio degli orologiai. Ma anche di quanti, per esempio, costruivano le micidiali balestre, in cui il tensionamento della fune avveniva con un sistema a ruote dentate e manovella.
La molla, il sottile nastro di acciaio che permetteva di imprigionare l’energia impressa in fase di caricamento, fu il fattore determinante che permise di avere a disposizione una riserva di energia ricaricabile e contenuta in un piccolo spazio.
Un orologio facilmente trasportabile avrebbe dovuto quindi essere azionato da una molla. Ben presto gli orologiai colsero lo spunto, anche se non sappiamo chi fu il primo ad utilizzarla e a dare avvio alla produzione degli orologi portatili. I testi antichi ne parlano in termini vaghi. Ma nella celebre miniatura tratta dal testo denominato Horloge de Sapience, verso il 1450, l’iconografia ci mostra un orologio domestico azionato a molla, come denota la pur primitiva conoide ben visibile nel dettaglio. Il che è sufficiente a fugare ogni dubbio.
La rivoluzione degli orologi da portare addosso
Quello che si sarebbe voluto raggiungere, molle permettendo, era un’adeguata miniaturizzazione, in modo da rendere i misuratori di tempo meccanici veramente portabili sulla persona. Fu questa, in qualche modo, la vera rivoluzione. L’orologio personale, che certamente soffriva di notevoli imprecisioni ed era intrinsecamente un gingillo delicatissimo, fu immediatamente uno status symbol.
Il tempo della gente di città, del mercante e dell’artigiano, già da un paio di secoli era scandito dalle ore eguali, tutte di pari durata. E i rintocchi della torre, solitamente, bastavano per le esigenze della comunità. Al potere laico e al potere religioso, che discutevano su chi potesse montare sul proprio edificio l’orologio e la campana, veniva ora ad affiancarsi un potere meno istituzionale, ma non meno importante: quello di chi era tanto ricco e potente da permettersi addirittura un orologio tutto per sé.
Ma quando e dove ciò sia avvenuto per la prima volta, è quello che tutti gli studiosi vorrebbero scoprire.
Peter Henlein e l’Uovo di Norimberga
Gli archivi tedeschi hanno fornito un certo numero di documenti che hanno permesso di ricostruire, almeno per sommi capi, la vita di Peter Henlein – o Heinlein, o Hele, come l’incerta grafia dei nomi di persona dell’epoca lo ha citato.
Originario di Norimberga, figlio di un fabbro, Peter nasce intorno al 1480/85. Poco sappiamo della sua famiglia, ma ha un fratello maggiore che già nel 1486 era Maestro nell’Arte dei Fabbri. Peter diventa a propria volta Maestro nel 1509. L’umanista tedesco Johann Cochlaeus, nei suoi compendi alla Cosmografia di Pomponio Mela, editi nel 1511, loda il giovane Peter per i suoi orologi: “Ogni giorno si scoprono cose più raffinate. Adesso Petrus Hele, giovane capace, fa cose che sono ammirate dai matematici. Infatti fabbrica orologi di ferro piccoli, con tantissime ruote, che funzionano in ogni posizione e senza peso e suonano per 40 ore, anche se li si mette in saccoccia e li si porta al petto“.
Nel 1524 un documento riporta un pagamento effettuato a suo favore per una mela dorata porta-aromi, contenente un orologio: era probabilmente ispirata alla forma dei portaprofumi in voga all’epoca, da portare al collo appesi a una catena o a un nastro. La forma rotonda e le dimensioni di un oggetto simile furono probabilmente all’origine della leggenda dell’Uovo di Norimberga. Altri scritti confermano le sue capacità di orologiaio, anche se non sembrano sopravvivere moltissimi documenti: la nera Signora lo volle con sé nel 1542.
Un mito da sfatare
La Germania del Reich, con il suo mito della Patria e della razza ariana, volle a tutti i costi celebrare in Henlein l’inventore indiscusso di tanto prodigio. Lo fece anche con un francobollo commemorativo, sebbene la realtà fosse ben diversa. Studi recenti, i cui risultati sono stati presentati nel 2019, hanno dimostrato che il celebre pezzo conservato al Museo di Norimberga altro non è che un falso. Un falso probabilmente ottocentesco, frutto dell’abile assemblaggio di parti d’epoca opportunamente integrate.
Senza nulla togliere alla bravura di Henlein, già Enrico Morpurgo era convinto di poter negare quel primato, per assegnarlo invece al nostro Paese. Il grande storico dell’orologeria e profondo studioso degli archivi italiani, per primo iniziò uno studio sistematico delle fonti. Spinto, oltre che dall’amore di verità, anche da una rivincita personale, da israelita sopravvissuto alla persecuzione delle leggi razziali qual era.
Gli orologi portatili in Italia
Se Norimberga era un centro importantissimo per la lavorazione del metallo, non lo era di meno a quel tempo Milano. Anche altri centri dell’Italia settentrionale producevano ed esportavano, tanto e più di Norimberga, lame, corazze e ogni sorta di prodotto in metallo, soprattutto se di alta qualità e di pregiata lavorazione. Dalle fucine di Belluno, di Brescia e di Bergamo partivano le lame che armavano gli eserciti scozzesi.
Intanto, presso le corti dei signori di Ferrara, Mantova, Milano o Venezia, non mancavano certo committenti tanto ricchi e competenti da volere per sé, o per farne dono di Stato, quanto di meglio l’umano ingegno potesse produrre all’epoca. E le testimonianze provenienti dagli antichi documenti in questo senso sono numerose.
Le prove scritte della seconda metà del Quattrocento
Alla fine del ‘400, il poeta e letterato Bettino da Trezzo, magnificando le industrie di Milano, raccontava che in città si facevano “…horologi grandi et piccolini…”. Mentre il matematico e astrologo Bartolomeo Manfredi, che installò anche l’orologio della Torre di Mantova, scriveva al marchese Ludovico Gonzaga, in una lettera datata 26 novembre 1462: “… l’horologieto posso farlo come quelo per el duca de Modena, anzi mejo…”.
Gli archivi ci restituiscono anche questa descrizione del 1482, fatta dall’architetto e ingegnere dei Gonzaga, Comino da Pontevico, che fu anche autore di un orologio per il marchese: “L’horologio e fato con la coriza (correggia, quindi nastro) de aciale (acciaio) temperata… Serata in uno canone (tubo) de auricalco (ottone) suso lo quale va intortiata una corda de nervo ita che la no se po vedere: et questo fano tuti li maestri per più secreto et beleza de lo istrumento: et quando ditta coriza no gli fussi non e dubio lo istrumento non haveria movimento alcuno etiam che gli fusse la corda de nervo… se habiano a movere tute le rote de el horologio e così stanno li miei quali mostrai a V.E. come se po’ vedere alcuni qui a Mantua…”.
Si potrebbe far acutamente notare che si parla di orologi piccini, e quindi di orologi portatili, ma non necessariamente da portare addosso. Tuttavia abbiamo dati importanti, in merito.
Altre testimonianze
Nato a Schio verso il 1500, Giorgio Capobianco, mentre Henlein operava in Germania, faceva “…un horologio dentro di un portatile annello, che haveva intagliati nella testa i dodici celesti segni, con una figurina fra mezo, che signate mostrava per numero l’hore del giorno et notte pulsanti…”. Dubito, sinceramente, che un simile portento non fosse il frutto di una pluriennale competenza.
Di Gaspare Visconti, amico di Leonardo e di Bramante, morto verso il 1499, ci restano poche opere tra cui un sonetto, in cui paragona un amante a un orologio. Nell’allocuzione introduttiva cita testualmente gli orologi portatili da indossare: “Si fanno certi orologi piccoli et portativi, che con poco d’artifizio sempre lavorono, mostrando le ore et molti corsi de’ pianeti et le feste, sonando, quando el tempo lo recerca“.
Da ultimo, va citato anche il più antico trattato di orologeria turca conosciuto, opera di Taqi al Din intorno al 1556. L’autore, grande astronomo, riferisce come cosa comune nell’Impero Ottomano gli orologi da portare in tasca. E, parlando di acciaio per fare le molle, raccomanda sempre di usare il migliore: quello di Venezia!
Caro professor Morpurgo, non ci resta che concordare con Lei quanto al fatto che gli orologiai italiani non fossero debitori di alcunché verso i pur bravi colleghi d’Oltralpe. Con buona pace di chi vorrebbe ancora sostenere posizioni diverse.