Proseguiamo (e terminiamo) la nostra lunga chiacchierata con Carlo Giordanetti. Sul filo dei ricordi, per capire cos’è Swatch, cos’è stato e cosa sarà.
Proseguiamo (e terminiamo) la nostra lunga chiacchierata con Carlo Giordanetti. Sul filo dei ricordi, per capire cos’è Swatch, cos’è stato e cosa sarà…
Parliamo di creatività. Ricordo grandi story board di Swatch in cui raccoglievate colori, suggestioni, richiami…
Per fare 3 orologi che si chiamavano Dolcevita ci abbiamo messo tre mesi di lavoro. Ne venivano fuori 3 da 50 complessivamente buoni. Quando abbiamo aperto lo Swatch Lab di via Cerva, a Milano, nell’88, avevamo due persone che chiamammo “i topini”, perché erano tutti vestiti di nero, ma anche perché loro entravano al mattino, andavano in camera oscura e ci restavano tutto il giorno e tutto il giorno sviluppavano colori. Non c’erano i pantoni, allora. Passavano il tempo a mischiare colori fin quando non trovavano il lilla che i designer avevano chiesto, proprio quello. Un lento lavoro a mano realizzato con pellicole colorate particolari.
Il Lab produceva a mano 15 esemplari di ogni orologio da mandare in produzione. Per ogni collezione, centinaia di “mock up”, con cui poi passavamo la dogana a Chiasso sudando freddo. Partivamo con casse piene di questi 15 manufatti al tempo stesso preziosissimi e super segreti, e andavamo alla Eta a fare le riunioni. C’eravamo noi del Lab e i product manager, circondati dal signor quadranti, il signor cinturini, il signor fibbie, il signor lancette… Spesso arrivavano 2 o 3 persone per ogni componente, tanto per renderci la vita più complicata, e loro col lentino, ad analizzare i file per la stampa… Tutto a mano, si faceva!
Quelle pellicole si chiamavano Color Key, le ricordo. Fogli trasparenti e colorati che venivano sovrapposti per poi essere usati come fossero pellicole fotografiche. Una roba lunga, oggi impensabile…
Già. E non finiva qui, perché poi dovevamo valutare i primi prototipi di ogni singola componente. Capisci bene che se un quadrante o un cinturino erano lontani dal nostro bell’orologio fatto a mano, dal nostro campione, allora saltavano tutti gli equilibri faticosamente creati. E quindi via con un prototipo dietro l’altro…
Ma tutte queste cose – style board, campioni, prototipi – le avete buttate via o stanno da qualche parte?
No, c’è tutto, c’è tutto! Quando nel 2013 abbiamo deciso di chiudere lo Swatch Lab di Milano e di portare tutto in Svizzera, per fortuna c’era e c’è ancora “la Claudia”, che è stata in Swatch quasi tanti anni quanto me, attentissima e bravissima, che aveva tenuto tutto! Quindi abbiamo casse e casse e casse con ancora gli esecutivi fatti a mano, i mock up fatti a mano…
Vogliamo dircelo? Un patrimonio culturale…
Sono d’accordo: è proprio una questione culturale. Con un marchio come questo, a quei tempi come oggi si faceva una collezione nuova dopo l’altra, ma il concetto di carry over non c’era. Per esempio, quando è nato il Jellyfish, era nato per star lì 6 mesi, ma se ne vendevano talmente tanti che a un certo punto qualcuno ha detto: “Facciamo che nella prossima fall/winter ci teniamo il Jellyfish”. E lì c’è stata una grande discussione, perché chi non aveva la vision diceva: “Teniamolo”; ma i due che avevano la vision completa hanno detto: “No, togliamolo”. Erano il signor Hayek e Franco Bosisio.
Del resto, è una delle ragioni per cui improvvisamente a un certo punto Swatch non ha più dato numeri di vendita. Swatch non era cifre, era un modo di pensare.
Sì. Noi abbiamo fornito i numeri nel ’92 quando abbiamo raggiunto i 100 milioni di pezzi, con l’evento “Swatch the People” di Zermatt. E un’altra volta – non ricordo l’anno – in cui c’è una foto di Mr. Hayek col 333 milionesimo Swatch… Si chiamava Frischer Fisch (pesce fresco!).
Sì forse era un evento a Lucerna…
Poi basta. Due anni mezzo fa, per i 35 anni di Swatch, mi sono messo lì a calcolare quanti modelli abbiamo prodotto, ed è venuto fuori che abbiamo prodotto un modello nuovo e diverso ogni giorno virgola 38 da quando siamo nati. È una cosa fantastica, perché non siamo mica stati lì a dire: “Ma quanti modelli facciamo…”. Anzi il problema è contenerci.
Sì, perché la fantasia è come un muscolo, se lo eserciti…
…Più ne fai, più ne faresti! Assolutamente sì, e poi la grande arma di Swatch è stata la capacità di portare sempre talenti nuovi. Quando abbiamo cominciato a creare qui a Milano, non c’era un team interno, c’erano designer coordinati da Jean Robert, tutti free lance. Quando abbiamo preso in mano la creatività di prodotto è stata la visione di Mr. Hayek che ha detto: “È chiaro che qui la componente creativa vale tanto quanto vale la batteria, o il chip del quarzo”, nel senso che senza non vai da nessuna parte. Allora ha verticalizzato e internalizzato tutto. Anche quello è un capitale esclusivo di Swatch. Il signor Hayek è riuscito a dare alla creatività un valore aziendale, cosa che negli anni ’80 non era così scontata.
Assolutamente sì. E proprio questo capitale ha consentito a Swatch di superare senza danni persino una piccola serie di flop, come il telefono…
Sì, ogni tanto la passione per l’innovazione a qualsiasi costo ti porta ad anticipare i tempi. E allora diciamo che potresti considerare alcune cose come dei flop, ma…
Mi spiego: io li considero flop perché non erano abbastanza in linea con la “cultura Swatch”. E i compratori se ne sono resi conto.
Sì, certo, capisco. Per esempio fu creata la Swatch Telecom, una divisione ben strutturata con la quale abbiamo cercato di applicare a noi stessi quel che abbiamo sempre negato agli altri quando ci chiedevano di fare le biciclette Swatch, i monopattini Swatch, e poi scarpe, cravatte… Non so se abbiamo ancora il materiale, ma se ci fosse sarebbe bello vedere quanti ci hanno proposto di fare quello che oggi chiameremmo “merchandising”.
Lo so bene: alcuni venivano a chiedere persino a me di intercedere. Oggi posso confessare che non ve ne ho mai nemmeno parlato perché sapevo bene come la pensavate.
E però noi abbiamo fatto con i prodotti delle divisioni sussidiarie, non prettamente Swatch orologi, lo stesso errore: abbiamo applicato alla superficie il linguaggio Swatch, ma non sempre c’era la sostanza. E infatti qual è l’unico prodotto che ha funzionato come un vero prodotto Swatch? Il Twin Phone, perché era un gioco, perché non si capiva come si facesse a tirare su la base del telefono, ascoltare e parlare dalla base e poi all’epoca avevamo tutti solo telefoni grigi. Lì c’era innovazione ma anche emozione, divertimento, provocazione. Quando, su quella falsariga, abbiamo fatto i primi cordless piuttosto che la segreteria telefonica o il cellulare, non c’erano tutte le caratteristiche per stare dentro la famiglia Swatch.
E sì, perché al centro doveva sempre esserci la “cultura Swatch”. Pop raffinato, ma immediatamente percepibile come un percorso esclusivamente Swatch.
Certo, e però la grande intuizione di questi progetti – e ce ne sono tanti, non so, oggi lo Swatch Big Bold ma anche il primo Access o il mitico Chrono a 100 franchi – è stata quella di costituire una grande palestra per quella ginnastica mentale di cui tu parlavi prima. Un progetto nuovo prende il team e lo fa riflettere più o meno, non è imporante; intanto ha svolto la sua funzione, che è quella di shakerare anche un po’ il mercato. Ricordo quando Nick Hayek e Nicholas Negroponte si sono inventati Internet Time, nel ’97/’98. Ad un certo punto son dovuto andare in Giappone con il signor Negroponte a fare la conferenza stampa di presentazione e mentre ero in volo pensavo: “Non è che ho capito bene cosa devo dire, non è che ho capito tutto di questa storia delle mille unità”.
Ma era comunque un esercizio, una spinta a muoverci, esplorare nuovi linguaggi, perché serve una bella testa per arrivare a quella roba lì, anche perché erano veramente gli inizi, i primi passi di internet. Nick Hayek diceva: “Un ragazzo che sta a Mosca, uno che sta a New York e uno che sta a Marrakech non hanno bisogno di sapere l’ora di queste città, è il loro tempo di casa. Ma se comunicano su internet, devono avere un tempo in comune, svincolato dall’ora locale”. È stato un esercizio straordinario, inventarsi il meridiano di Bienne, poi con la passione che Nick ha per tutto quel che è comunicazione si parte di lì e arriva Lara Croft: cose che ti lasciano a bocca aperta!
Mi ha stupito molto il fatto che fin dall’inizio anche sul versante tecnico Swatch fosse un’esplosione di creatività. Passi per le origini, che derivano da una follia al quarzo che si chiamava Delirium Tremens, ma persino i materiali erano straordinari.
Ti ho mai raccontato di quando ho tentato di dare fuoco a uno Swatch? Ero pronto per scrivere un articolo, avevo già anche il titolo: “Un cerchio di fuoco al polso!”. Vado sul terrazzino di casa, prendo uno Swatch, tiro fuori l’accendino e gli do fuoco. Ma lui non prende fuoco, o meglio, la cassa un po’ sì, ma scopro che è plastica autoestinguente e come allontano la fiamma si spegne. Pensavo che il cinturino almeno si sciogliesse, ma invece no. E così ho scoperto che Swatch Group ha anche una propria fabbrica di polimeri nata proprio per rifornire Swatch di plastiche nobili. La tecnica al servizio del rispetto per il pubblico, e in una cosa apparentemente secondaria, perché nessuno si sarebbe scandalizzato se la plastica avesse preso fuoco come la pira di Giovanna d’Arco.
E sempre per parlare di rispetto per il pubblico, questa storia che entri in uno Swatch store e ti trattano da principe, come se tu fossi entrato da Breitling?
Ti racconto una cosa attualissima. In questi tre mesi di gente chiusa in casa, abbiamo tutti fatto lo stesso esercizio, soprattutto nelle prime settimane. E cioè abbiamo messo in ordine le librerie, poi gli album delle foto, e quindi tirato fuori e riorganizzato tutta casa. E sono saltate fuori quantità inenarrabili di vecchi Swatch dimenticati, ovviamente con la pila esaurita. Quando gli Swatch Store hanno riaperto – in tutti i mercati del mondo nello stesso modo, tranne che in Cina, perché ovviamente lì il marchio è arrivato dopo -, le prime migliaia di actions richieste dal pubblico riguardavano proprio la sostituzione della batteria. Nella prima settimana solo in Svizzera hanno cambiato 8.000 pile!
Ma le cambiate gratis anche in Svizzera?
Beh, certo, è il nostro commitment globale, il marchio è un marchio onesto!
Sì, ma non è solo onestà: parlerei di “lusso pop”. Una volta Nick Hayek mi faceva notare che Swatch ha un decimo dei punti vendita di Ray-Ban, che pure è certo un marchio “di lusso”. La distribuzione di Swatch è quindi effettivamente molto selettiva. Lusso, appunto. Lusso pop che viene prima ancora dei risultati commerciali.
Sì, anche perché è la prova che appunto il lusso vero non ha nulla a che vedere con i soldi. Il vero lusso è una forma di pensiero, ma non perché una cosa cara non possa essere lusso o non meriti di costare tanto, certo…
Non è il prezzo a fare il lusso. È il contenuto in emozione. È una lezione che mi è stata utilissima.
Il prezzo è una conseguenza di altre cose, ma non giustifica di per sé a parlare di lusso, da un punto di vista culturale. Per questo Swatch non deroga mai dalla sua essenza… Tant’è vero che quando c’è stata – era l’84 o l’85 – la famosa pagina intera sul “Wall Street Journal” con il claim “It’s Time To Change Your Rolex”, il concetto era: “Non è perché hai un Rolex che sei intelligente, è che devi capire che cos’hai al polso, devi capire la storia che c’è dietro il tuo orologio”. E poi l’altra cosa che secondo me ha funzionato in maniera straordinaria – ma questo lo immagini, conoscendomi bene – è stata l’idea di lasciare il prodotto vergine nelle mani di nomi straordinari, che fossero artisti o altro.
Come dicevi prima, Swatch ha saputo fare un passo indietro, offrirsi alla creatività. Quando abbiamo lavorato con Sam Francis il risultato era sì lo Swatch Sam Francis, ma soprattutto era “un Sam Francis”. La gente, cioè, si poteva finalmente comprare un Sam Francis, un Keith Haring, adesso un Tilson, piuttosto che un Davenport o un Damien Hirst… in tiratura limitata ma a un prezzo assolutamente democratico. È stata una cosa fantastica, che ci ha dato una “patente di nobiltà”, di altissimo livello, alla quale teniamo molto. Noi vogliamo che chi compra uno Swatch lo faccia con orgoglio, indipendentemente dal prezzo.
Prima o poi dobbiamo riprenderlo, questo discorso, perché bisogna capire quanto la creatività possa essere una forma di divertimento. Ma anche quanto certi tipi di divertimento possano essere “nobili”, appunto.
E quanto si sono divertiti a creare il proprio Swatch anche personaggi insospettabili. Perché la grande cosa che devo dire, e mi dà il solito brividino, è quando tu andavi da Vivienne Westwood, che era comunque una rivoluzionaria punk, questa si divertiva. E ci sta. Ma quando siamo andati da Renzo Piano, lui ha detto: “Io neanche morto faccio uno Swatch, sono un architetto, non sono mica un designer”. Poi dopo tre settimane ha mandato uno del proprio staff, l’architetto Giorgio Bianchi – poi siamo diventati amicissimi io e Giorgio –, il quale ci ha informati che Piano avrebbe fatto lo Swatch se noi fossimo riusciti a fare per lui una cosa che non era mai stata fatta prima.
Una sfida. Io ho risposto: “Boh, non lo so, dipende, non posso compromettermi”. E lui mi ha detto che Piano voleva colorare gli elementi del movimento, perché Piano è appassionato della trasparenza, ma lo Swatch è colore, quindi la trasparenza col metallo non gli piaceva. Sono andato in Svizzera con quell’idea e i tecnici mi hanno guardato e mi hanno detto: “Sì, vabbè, ciao, dì a Piano che non si può fare, perché il colore migra, perché poi sul metallo non prende…”. Eppure poi, testardo uno, testardi gli altri, alla fine ci siamo arrivati, e questo perché Piano si è divertito, si è divertito a sfidarci, a colorare con i pennarelli. Per intenderci, quando siamo andati da lui in studio a Parigi per la presentazione, prima ha detto: “Posso darvi solo 20 minuti” e poi invece non ci mandava più via.
Attento però, tu la fai molto semplice con quel “si è divertito…”. Swatch è la sfida di Raymond Queneau in “Esercizi di Stile”, cioè in quanti modi puoi dire la stessa stronzata e come farla diventare una fantastica forma d’arte. Swatch è Queneau, Swatch ha fatto dire delle cose, ha messo il colore al polso di gente insospettabile… Anni fa avevo l’abitudine di valutare i politici anche a seconda dello Swatch che indossavano. Se avessero scelto il colore avrei potuto prenderli in considerazione, altrimenti no perché non avevano coraggio. Swatch ha avuto un ruolo importante anche nella storia della comunicazione.
In effetti, uno dei complimenti migliori che puoi fare a Swatch è proprio che è Queneau, che è un oggetto assolutamente dadaista, o anche assolutamente pop. Swatch, se vuoi, è un oggetto kitsch che attraversa tante categorie apparentemente incompatibili, perché ha la grande libertà di dipendere dal proprio modo di pensare, senza limitazioni commerciali. Senza dover piacere per non morire. Come quando a Mr. Hayek dicevano: “Ma questa idea, questa campagna, non è coerente con quella dell’anno scorso”; e lui rispondeva: “Ma l’unica coerenza che abbiamo noi è l’incoerenza”!
Una cosa che mi piace molto: tu continui a parlare del signor Hayek e parlando del signor Hayek ti riferisci spesso al padre quanto al figlio…
Sì, beh, anche se c’è un periodo in cui Nick non c’era ancora. Ma la continuità è senza dubbio impressionante…
Ti va di concludere parlando dei 10 anni del Swatch Art Peace Hotel a Shanghai?
Certo! Un altro progetto fantastico, perché tanti marchi ormai lavorano con gli artisti, gli fanno fare prodotti o campagne, recentemente Moncler con la campagna stupenda commissionata all’artista cinese. Altri hanno fatto cose un po’ meno belle, ma comunque ormai l’artista “fa chic”. Ma credo che nessuno come Swatch abbia spesso e fin dall’inizio interamente affidato il prodotto ad uno, a tanti artisti. Credo nessuno abbia una vera storia di pioniere, una continuità in questo senso.
Qualcosa aveva fatto Sottsass, ma non nasceva come artista, era più un designer…
È vero, ma quando Sottsass aveva fatto il Tissot, Swatch esisteva già. Mi viene in mente anche la vodka Absolut, che ha fatto fare la bottiglia ad alcuni artisti, ma noi anche lì c’eravamo già. E non è tanto che eravamo più bravi, è che abbiamo veramente inventato un linguaggio attraverso la continuità. La nostra non era una cosa episodica. E così quando a un certo punto c’è stata questa sfida – anche se eravamo già in cima – di arrivare ancora un po’ più in là sul mercato cinese, dove allora la parola chiave era “bling”, tutto quel che luccica, certo ci siamo posti il problema di come fare un prodotto che corrispondesse a quel gusto.
Poi invece i cinesi, che vanno molto più veloci degli europei in tante cose, quella curva lì l’hanno esaurita, e l’intuizione – di nuovo di Nick Hayek – è stata, visto che noi siamo plastica, di cercare di trovare un modo per passare oltre quel materiale, un modo per far sì che non fosse più l’argomento. L’argomento deve essere il contenuto emozionale di Swatch, il suo valore aggiunto, e l’unica variabile che abbiamo che ci porta là è l’arte. Lo Swatch Art Peace Hotel è stato una sfida, nel senso che si tratta di un luogo in cui dare del tempo agli artisti per fare quel che vogliono. Il punto, parafrasando il detto “time is what you make of it” è: “Swatch ti offre il tempo per fare arte come vuoi”.
Lo Swatch Art Peace Hotel è stato anche il primo esperimento sistematico di riconoscimento dell’arte orientale.
Sì certo, assolutamente…
Nessuno prima lo aveva fatto. Il resto del mondo rideva degli artisti orientali.
Tutti si chiedevano: ma perché fate questa cosa proprio in Cina? Lo Swatch Art Peace Hotel non è mai stato pensato per gli artisti cinesi, per gli artisti orientali, attenzione. Mai, altrimenti non sarebbe Swatch. Se metti un passaporto come criterio d’entrata non sei più Swatch. Tant’è vero che la prima generazione di artisti che sono stati lì era internazionale: sembra la barzelletta del “c’era un inglese, uno svizzero, un italiano e un cinese”… E così siamo andati avanti. L’eccezione è questo momento così particolare in cui, per mantenerlo vivo, abbiamo ovviamente lanciato più artisti cinesi perché per loro è più facile andarci. Ma la mission era proprio quella di creare un luogo in un posto pazzesco – all’angolo di Nanjing Road col Bund, in un edifico storico – da offrire agli artisti di tutto il mondo, per farci dentro quel che vogliono.
L’altro progetto che era in gara con lo Swatch Art Peace Hotel era la realizzazione del più grande negozio al mondo con una galleria d’arte sul tetto. Ma noi abbiamo ragionato in contropiede, abbiamo preso il mondo di sorpresa. È questo il punto forte di Swatch.
Oggi cosa dovrebbe fare un giovane artista per tentare di farsi valere da quel punto di vista, per diventare un artista Swatch? Dall’entrare nello Swatch Art Peace Hotel al disegnare qualcosa?
Importante: nel regolamento dello Swatch Art Peace Hotel c’è scritto che gli artisti non devono mai essere condizionati a far qualcosa per i marchi del gruppo, loro sono lì per se stessi. Dopodiché il mio mestiere è anche, qualche volta, quello di trovare, di sentire, scoprire un linguaggio o un talento in sintonia con Swatch. E ne ho trovati, e continuano ad essercene, ma non è mai quello il criterio di scelta. Anche perché quella volta o due in cui abbiamo detto: “Questo qui forse non è all’altezza, però per Swatch è carino…”, è stato un disastro perché non funziona così.
Secondo me la risposta è intanto essere sé stessi. Non puoi capire quante proposte di creativi riceviamo che vogliono rifare i vermicelli di Keith Haring, oppure che siccome abbiamo avuto un orologio che si chiama Mazzolino allora fanno i fiori. Ecco, non funziona mai così.
Quasi sempre si parte dal fatto che uno di noi del team si innamora di una cifra estetica, di un linguaggio personale. Mi è accaduto, per esempio, 3 o 4 anni fa, di leggere un articolo su “Elle” che parla di due signori argentini, marito e marito, che ricamano, fanno degli arazzi 9 metri per 9. Delle cose pazzesche. E allora ho detto: “Cavolo, questo è divertente”, e nasce così la collaborazione. Quelli, per dire, non si sarebbero mai sognati di disegnare uno Swatch, ma lo hanno prima creato, poi ci hanno detto: “Ok, solo se lo Swatch è ricamato: a noi una cosa stampata non interessa”. Quindi noi abbiamo poi dovuto trovare chi lo ricamasse e ovviamente l’abbiamo trovato.
Quando abbiamo presentato il loro orologio a Parigi, in una galleria, in un ambiente molto carino, è venuta un’artista che era stata allo Swatch Art Peace Hotel. È andata da loro, ha raccontato cosa fosse il progetto di Shanghai. A quel punto loro hanno fatto la domanda di ammissione. Un percorso totalmente inverso al solito. E dovrebbe sempre essere così, perché alla fine i progetti Swatch che hanno successo non nascono mai a tavolino. Nascono da un’energia diversa, non definibile in una logica razionalmente aziendale.
Sono i figli naturali della cultura Swatch, non sono programmati…
…Esatto. E quando qualcuno mi dice: “Ah, ma oggi dobbiamo capire cosa fare nel 2022”… Dobbiamo capire: sì, è vero, dobbiamo preoccuparci di sapere per chi disegneremo l’orologio del 2022. Ma forse invece no.