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Assorologi: il mercato italiano, i Comuni e lo Swiss made

Ricorrente chiacchierata (d’obbligo) con Mario Peserico, nel ruolo di Presidente di Assorologil’associazione che raggruppa la maggior parte degli operatori dellorologeria in Italia. Per fare un po’ il punto della situazione

Ne abbiamo parlato in passato ed è il caso di tornare al punto. Una serie di crisi successive sta mettendo in discussione il mondo intero. Qualcuno cerca di fare lo sfaticato dicendo che basta aver pazienza e tutto tornerà come prima, ma − dovesse mai accadere − ci vorranno generazioni. Nel 2008 i subprime (qualcuno diceva che è una crisi americana, non arriverà mai in Europa…), poi Hong Kong, collettore di ricchezze con destinazione Cina, e infine la pandemia. Bisognerà imparare che tutto cambia, bisognerà imparare a decidere bene e velocemente, bisognerà imparare che la ricchezza mondiale si sta trasferendo da Occidente a Oriente.

Negli scorsi anni i soldi cinesi hanno fatto gola a tutti e in particolare ai grandi marchi del lusso − da quello vero a quello preteso. L’Europa, in particolare, ha saputo gestire la propria bellezza e la propria storia per riempire le valigie dei turisti cinesi d’oggetti preziosi che venivano venduti bene perché al netto delle tasse che avrebbero pagato in casa. E perché per acquisti in grande scala (interi charter di persone che acquistavano e riportavano in patria per conto di comparatori e negozi locali) c’erano pure sconti piuttosto generosi.

Il Covid ha azzerato la situazione. Turisti non ce n’è, compratori per procura nemmeno e chi aveva puntato sugli acquisti orientali oggi si ritrova con cali di fatturato che arrivano e forse superano l’80 per cento. Un vero film dell’orrore. Per i negozianti, innanzitutto, ma anche per i compratori, disorientati da un servizio spesso creato a misura di turista, non di “compratore locale”.

A mitigare la situazione arriva la “scoperta” che i singoli mercati europei possono comunque essere una solida base su cui costruire il futuro. Un futuro diverso e magari meno ricco, ma comunque una base solida per chi abbia voglia di rimboccarsi le maniche. Orologeria compresa. Ne parlo − ancora una volta e tanto ne parleremo ancora − con Mario Peserico, Ad di Eberhard & Co., ma qui (soprattutto) in veste di Presidente di Assorologi, la sigla che raggruppa quasi tutti i distributori d’orologi sul mercato italiano.

I “clienti locali”, che costituiscono una base fondamentale per qualunque forma di commercio, erano stati un po’ dimenticati. Ora se ne riscopre l’importanza.

Peserico Assorologi: Sicuramente. Soprattutto in provincia. Partiamo dal fatto che l’Italia ha sempre avuto una distribuzione d’una capillarità sconosciuta in altri Paesi. L’Italia, sia per numero che per qualità di gioiellerie, ha caratteristiche uniche. Certo è negli ultimi 12 anni, dal 2008 (un po’ la stessa crisi del 2008 e un po’ gli eventi successivi) hanno falcidiato questa distribuzione. Però il centro e sud Italia, confrontati con i valori ufficiali, mantengono comunque un proprio buon valore per l’orologeria e la gioielleria.

Credo che anche in una situazione come quella dell’attuale pandemia − in cui i centri cittadini si sono svuotati, è mancato il turismo tradizionale, è mancato il turismo business, gli uffici sono vuoti − credo che non ostante tutto ciò la provincia si sia rivelata sotto una luce diversa. Molte persone hanno ricominciato a vivere i paesi, le piccole città. Lavorare in smart working riduce la necessità del pendolarismo. Si può stare “a casa” e spendere di meno perché gli stessi negozianti spendono meno. Sì, credo che la provincia anche per questo sia tornata a splendere di una luce diversa. E anche la cosiddetta distribuzione periferica assume un ruolo più rilevante. Un ruolo, comunque, da guardare con maggior rispetto di quanto non sia stato fatto negli anni precedenti.

C’è anche il piacere di sentirsi trattati in un certo modo. Voglio dire che il negoziante locale conosce e rispetta i professionisti di successo della propria zona e li tratta di conseguenza. Nella grande città sei solo uno dei tanti.

Peserico Assorologi: “Essere uno dei tanti”, come dici, credo sia la conseguenza del tentativo d’orientarsi verso mercati nuovi. Che poi ormai nuovi non lo sono più. La grande crescita della Cina, di Hong Kong e così via, ha illuso molti spingendoli a dimenticare la propria realtà specifica. In realtà era da qualche tempo che da Cina e Hong Kong si era già ricominciato a tornare verso l’Europa e quindi verso l’Italia. Solo che poi è scoppiata la pandemia. Pandemia che, da un punto di vista economico, ha bloccato più l’Europa che la Cina, che è già ripartita. I prezzi, ad esempio, avevano fatto un passo indietro, visto che oltretutto il prezzo medio delle vendite online non cresce così come ci si aspettava.

Ora bisogna reinventare molto la rete di distribuzione. Spostare l’interesse verso l’Estremo Oriente era andato di pari passo con una rarefazione della distribuzione in Italia. Chi magari aveva una rete di 100 concessionari li ha ridotti a 50 o ancora meno, tagliando via tutta la provincia. Oggi io credo che, siccome la provincia è una grande ricchezza dell’Italia, sia appunto necessario tornare al passato, sia pure in chiave moderna.

È la nostra storia, quella dell’Italia dei Comuni…

Peserico Assorologi: È vero, è la storia dell’Italia sia dal punto di vista culturale che da quello della ricchezza. Le nostre piccole e medie imprese non stanno solo a Milano o nelle altre grandi città. Stanno anche nei piccoli centri, stanno in provincia. Credo che lo spostamento verso il mercato dei turisti si sia rivelato eccessivo. Bisognava curare meglio la distribuzione capillare sul territorio, come dicevo all’inizio. Ora sarà importante saper curare il nostro mercato nazionale, tutto, anche nel caso i turisti tornassero.

Ma non credi che per trattare meglio il mercato locale servano anche misure politiche che lo favoriscano? Orologeria e gioielleria sono settori guardati con sospetto dalle istituzioni…

Peserico Assorologi: Sì, in particolare l’orologeria è un settore così tracciabile da non meritare questi sospetti. Ogni orologio ha numeri di cassa, numeri di referenza e così via. Non c’è uno spillo, non c’è una fibbia che non sia dichiarata. Ma qualcosa bisognerebbe fare per i negozianti. Non parlo tanto dell’Iva, perché in fondo sono tante le categorie che pagano il 22 per cento e per giunta l’orologeria non è una ricchezza esattamente italiana. Quindi non mi aspetto che il governo possa dedicare un’attenzione particolare al mondo dell’orologeria, da questo punto di vista.

Certo è però che la categoria dei negozianti − che per definizione si pensa nasconda delle “riserve” − non merita questa diffidenza. Prova ne sia che negli ultimi anni in Italia si è passati da 17mila gioiellerie a 10mila e molte sono comunque in difficoltà. Se la dichiarazione dei redditi media è di 16mila euro l’anno è perché si passa facilmente dai grandi punti vendita, che magari fatturano qualche milione, a gioiellerie che finiscono in perdita e sono costrette a chiudere. Se uniamo a questo la ricchezza anche culturale dei distretti italiani della gioielleria un solido patrimonio italiano anche per quanto riguarda la produzione − allora sì, in questo senso sono d’accordo che non sarebbe difficile né costoso tutelare meglio questi segmenti di mercato.

È vero: stiamo comunque parlando di forme d’arte, anche molto importanti, che andrebbero assecondate e aiutate. E da questo punto di vista in effetti nessun governo, da molto tempo, ha fatto qualcosa per queste eccellenze a livello mondiale.

Peserico Assorologi: Diciamo che l’Italia non ha particolare interesse a difendere l’orologeria , come tu la definisci, artigianale o di una certa caratura, che comunque è un prodotto svizzero. Alla fine il problema italiano è che orologi e gioielli, tranne rare eccezioni, si vendono nella stessa tipologia di negozio e questo crea una serie di equivoci in chi non conosce il settore in senso lato. Ma quel che mi stupisce è che il settore non venga difeso bene nemmeno in Svizzera. Vorrei indossare temporaneamente due cappelli, Assorologi ed Eberhard, per dire che oggi siamo in una situazione in cui è più che mai necessario fare sistema. E invece almeno negli ultimi due anni non è stato fatto nulla, in questo senso.

Partiamo dalle fiere di settore. Probabilmente nel 2021 non ce ne saranno perché nessuno pensa che ad aprile possano arrivare in Svizzera buyer di Hong Kong o, in genere, orientali. Vorrei ricordare che metà della produzione svizzera d’orologi va in Medio o Estremo Oriente. Ovviamente altrettanto vale per le fiere settoriali italiane o di altri paesi europei.

Mi stupisce però che non si siano colte le occasioni. Mi stupisce che la caotica situazione creatasi per crisi, pandemie e litigi non abbia spinto nessuno a lavorare seriamente per tornare almeno a ipotizzare una fiera unica, e non le tante che invece sembrano prospettarsi. Magari ciò dipende anche dalle caratteristiche del settore: siamo tutti marche storiche, ognuna ragiona un po’ per sé e si fa fatica a far sistema. Ma possibile che nessuno spinga per metterci tutti intorno a un tavolo, guardarci negli occhi e chiederci cosa si possa fare per noi stessi? Possibile che non si individui un terreno comune sul quale iniziare?

Parliamo fin troppo male dell’Italia, ma perché in Svizzera − per la quale l’orologeria riveste unimportanza notevole sotto ogni punto di vista − nessuno è capace di mettere intorno a un tavolo Federazione dell’Orologeria, produttori e governo? Invece viviamo un’incertezza che secondo me si sta già riverberando negativamente, e rischia di farlo ancora di più in futuro, sull’immagine dell’orologeria in generale. Immagine che sempre di più si basa su quelle poche marche storiche capaci di custodire la propria eccellenza e comunicarla. Comunicarla a spese proprie, ovviamente, ma sempre senza far sistema.

Un esempio importante, in questo senso, è lo “Swiss Made”. Oggi il compratore sa che gli orologi non erano fatti al 100 per cento in Svizzera, come si era invece tentato di far credere. Non era un problema perché comunque la qualità è sempre stata eccellente anche con il 50 per cento. In Italia siamo stati molto più abili: pur se il nostro Made in Italy non arriva al 50 per cento del prodotto, abbiamo comunque saputo far capire che la vera garanzia sta nel buon nome del marchio, che non può accettare alcun calo di qualità.

In Svizzera l’orologeria, a fronte dei tentativi dei produttori di rafforzare lo Swiss Made, ci si è limitati ad aumentare di un 10 per cento l’obbligo di produrre “in casa”. Il che incide poco sulle fasce alte di prezzo, ma soffoca le altre. Che sono altrettanto fondamentali per la buona immagine dell’orologeria svizzera. Oggi l’orologeria di una certa fascia di prezzo subisce l’assalto dei dispositivi connessi o comunque elettronici provenienti dall’Oriente. E in più bisogna aumentare la parte realizzata in Svizzera, facendo lievitare i costi e diminuendo la redditività del nostro lavoro. Facendoci correre rischi terribili quando il mercato soffre per le periodiche crisi.

E il rischio è quello di diminuire la qualità. Perché se io oggi devo produrre il 60 per cento di un orologio da 500 euro in Svizzera, contro il 50 per cento precedente, come faccio a conservare la qualità? Taglio sulla ricerca e sviluppo? Taglio sugli stipendi? Alla fine quelli come noi di Eberhard, che non accettano compromessi, devono tagliare i margini, ma finiamo per esporci a rischi molto forti. È un danno per l’intero settore. Una politica poco lungimirante. Credo si debba lavorare molto per riscostruire l’immagine dei prodotti occidentali, nei prossimi anni. Nel solco della tradizione, certo, ma anche guardando al futuro.