Protagonisti

Guido Terreni, Michel Parmigiani e la forza del pensiero lento – 2

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E ora arriva il cuore del discorso. Già nella parte pubblicata ieri, Guido Terreni, attuale Ceo di Parmigiani Fleurier, accennava all’importanza di compenetrarsi nell’anima di un marchio. In questa seconda parte va oltre

Come chiave di lettura vi prego di notare quante volte Guido Terreni ripete questo concetto, inserendo in questa “anima” anche il pubblico finale, quello dei compratori. È una visione corretta quando, come in questo caso, il compratore non viene vissuto come persona da spingere al desiderio; non viene vissuto come il tentativo di sedurre qualcuno che non ha alcuna voglia d’essere sedotto. Terreni, al contrario, considera questa persona come interlocutore essenziale per il dialogo, per la comunicazione fra Michel Parmigiani, i tecnici, i disegnatori. Ancora una volta Terreni interpreta il proprio ruolo come quello di un direttore d’orchestra. Con la modestia di chi sta ancora studiando lo spartito, certo, ma è ben consapevole che la musica è buona e il proprio ruolo è importante per farlo comprendere.

La seconda chiave di lettura la troverete nel discorso che Guido Terreni fa sul restauro degli orologi. Sul significato dell’opera di chi restaura, forse considerando se stesso come la persona che deve appunto fare un certo tipo di restauro (sul marchio), ma nel rispetto dell’iniziale bellezza. L’opera deve essere riportata all’originale bellezza dopo una serie di interventi di qualità, certo, ma non sempre in sintonia con l’idea iniziale.
E per poterlo fare Guido Terreni – che sarà pure il Ceo di Parmigiani Fleurier, ma è innanzitutto una persona di valore – studia, studia il marchio, studia le opere, studia il percorso compiuto dalla “leggenda vivente”, come giustamente definisce Michel Parmigiani.

Guido Terreni: «Sai, la fortuna di essere un marchio di nicchia ha aspetti eccezionali. Vedi, superando il concetto di marketing io voglio creare una relazione più umana con gli appassionati del marchio. Più “inclusiva”, come si dice oggi. Chi vuole un Parmigiani Fleurier ha chiaramente in Michel la figura chiave del marchio. E io mi rendo conto che Michel ha ancora molta voglia di dare, che è ancora la chiave, il solista del marchio. Per questo il suo ruolo deve essere riportato in primo piano, nella vita futura del marchio. La sua eccezionale conoscenza dell’orologeria è un patrimonio trascinante, una ricchezza sincera, autentica.

Un esempio che mi piace fare si riferisce a quando gli ho chiesto come mai lui preferisse le normali fibbie ad ardiglione rispetto alle più “pregiate” chiusure pieghevoli. Lui mi ha guardato con un sorriso appena accennato e mi ha detto che aprire il cinturino ti consente di ammirare al meglio, attraverso il vetro sul fondello, il movimento. Perché rendere la vita difficile ad una persona che conosce e vuole apprezzare la qualità del movimento? Questo la dice tutta. Io non sto vendendo un prodotto perché è la somma di aspetti preziosi che fanno tanto full-optional. No, io ti metto una normale fibbia ad ardiglione perché voglio consentirti di aprire il cinturino e osservare la bellezza del movimento, tutto il lavoro di cui è il frutto.

Parmigiani Fleurier, è questo il punto, è un orologio per persone che hanno la cultura giusta per apprezzare una scelta di questo tipo. Sembra banale, ma ovviamente non lo è. Anzi, complica molto le cose e per questo il mio dovere è studiare. Per fortuna non devi cercare un pubblico molto più ampio, per tornare a una crescita importante. Devi però saper parlare, creare un dialogo con persone poco propense a farsi affascinare dalle promesse del marketing così com’è inteso attualmente. No, devi imparare a parlare con persone che cercano cose esclusive, oggetti che nessuno ha. Una persona un po’ snob, nel senso positivo nel termine, non che guarda nessuno dall’alto in basso proprio per far spaziare il proprio sguardo. È il suo modo di cercare e trovare oggetti non banali, di valore. Un valore che non è dato dalla cosmesi della comunicazione, ma è intrinseco nell’oggetto».

Pane per i tuoi denti, direi. Hai sempre avuto la vocazione all’orologeria “sartoriale”. Mi sembra una combinazione molto positiva perché non ostante il marchio avesse comunque fatto orologi straordinari, ogni tanto aveva perso un po’ dello spirito originario. A proposito, tu che hai lo spirito del motociclista d’avventura, tu che hai fatto persino il giro della Patagonia in moto, hai già sperimentato i vorticosi tornanti intorno a Fleurier?

Guido Terreni: «A dirti la verità conoscevo bene la zona già da prima di venire a lavorarci. Conosco ogni centimetro di queste valli. Non si può sperare in un paesaggio migliore e il traffico è scarso. Non è che ci siano frotte di persone che vengono a Fleurier. Le strade sono ben tenute e in moto è un piacere pazzesco. Lo consiglio vivamente.

Chiaro, Fleurier non è certo una località mondana e piena di vita sociale, però c’è una sobrietà incredibile. Non ho ancora capito bene quale sangue giri nelle vene di questa gente… Ma c’è comunque una sensibilità al ben fatto, alla credibilità, alla cura di un’idea creativa che, del resto, è trasversale e si trasmette anche agli altri marchi basati a Fleurier. C’è un occhio di riguardo, un grande rispetto per la tradizione, ma anche il desiderio di non fare solo passato. Secondo me chi vive nel passato non sta vivendo. A me piace che il passato sia la base su cui per creare qualcosa di un po’ più fresco, ma radicato in quel che l’Unesco ha appena dichiarato patrimonio dell’umanità. L’insieme della sapienza dell’orologeria meccanica svizzera».

E ciò riconosce all’orologeria lo status di una forma culturale, certamente, ma capace di trasformarsi in autentica opera d’arte.

Guido Terreni: «Assolutamente sì. Un paio di settimane fa mi hanno mostrato un orologio da tavolo pazzesco, che pesava 55 chili. Raffigurava una giumenta d’argento con il suo puledrino. Azioni il meccanismo e la giumenta si muove con grande eleganza tenendosi vicina al puledrino che però ha un’andatura incerta, proprio come deve essere. E tutto questo è frutto di un lavoro meccanico in grado di farti percepire persino certe sfumature del moto. Sono oggetti che non hanno prezzo, sono opere d’arte, appunto.

Qualche giorno fa ho seguito Michel negli archivi. Che non sono dati digitalizzati sul computer, no. Siamo andati nel solaio, con un freddo pazzesco perché non era riscaldato. Mi ha mostrato i lavori che ha fatto da quando, a 25 anni, ha iniziato la propria carriera di restauratore. 45 anni di attività. Ci sono oggetti che tolgono il fiato quando ti rendi conto di cosa si possa fare con la meccanica; ma soprattutto quando ti rendi conto che Michel ha studiato e restaurato questi oggetti. Diventando, appunto, una leggenda del restauro.

Questo ti porta valori coinvolgenti, valori che non basta studiare in una grande scuola di orologeria. Ci vuole molto, molto di più e solo due o tre persone al mondo hanno questo patrimonio di cultura. E a ben vedere non è nemmeno solo cultura, sia pure immensa. È di più. Un restauratore deve sapersi annullare nell’opera, deve sparire per rinascere in chi l’ha creata. Deve in qualche modo trascendere nel creatore di questi pezzi eccezionali cui Michel ha restituito vita. Restaurare”, mi ha detto Michel, “è una tensione emotiva pazzesca”. Mi vengono i brividi, a pensarci, perché un po’ comincio a comprendere.

Una persona che lavora con lui nell’atelier di restauro mi ha spiegato: “Quando perdo una vite io la cerco con ansia. Perché se non la trovo, allora avrò bisogno di un’altra giornata di lavoro per rifarla. Non posso usarne una qualunque, magari simile all’originale. No, io devo rifarne una proprio come le faceva l’autore dell’opera. Devo rifare un originale, in un certo senso, perché fino alla fine dell’Ottocento la filettatura non era standardizzata. Ogni vite era unica, ogni filettatura diversa, e ogni orologiaio faceva la propria. Questo è il senso del restauro come me lo ha insegnato Michel”. Che non a caso ripete come sia una pressione psicologica pazzesca perché non puoi permetterti nessuna distrazione, nessun errore. “Nel restauro vivo la tensione emotiva di evitare l’irreparabile. Perché se creo l’irreparabile è finita: la mia traccia resterà visibile nel mio errore e l’oggetto non potrà più essere riportato alla sua autenticità”.

Comprendo ora come la tecnica del restauro sia una forma di filosofia. Si tratta di tecnica applicata a un’emozione che è sopraffina, che trascende. È molto più difficile restaurare che creare, in un certo senso, perché devi seguire passo per passo il sentiero tracciato dal creatore, ma devi saperlo seguire lasciando tracce identiche e quindi invisibili. Se devi ricostruire delle componenti devi farlo impiegando le tecniche dell’epoca per annullare ogni segno del tuo passaggio. Il restauro è lo Zen della meccanica. Quando uno ha questa competenza dentro di sé, allora impara ad essere una presenza discreta, nascosta. Non è lui l’eroe. Il restauratore vive per dare un futuro ad un oggetto del passato. E quando si trasforma in creatore di oggetti, allora capisce anche come fare meccanica che un restauratore, in futuro, possa comprendere e far tornare a nuova vita».

Il sogno di eternità – impossibile – che anima ogni grande orologiaio.

Guido Terreni: «Certo. Dopodiché bisogna tornare con i piedi in terra e pensare anche ai numeri. Perché pure loro fanno parte del processo creativo. E allora, visto che anche a te piacciono queste cose, voglio condividere una piccola ricerca che ho fatto fare sul mercato del lusso. In particolare, il mercato degli orologi con un prezzo superiore ai 10mila franchi svizzeri equivale a solo 1,1 milioni di pezzi – sui poco meno di 14 milioni d’orologi esportati dalla Svizzera. Ma rappresenta il 68 per cento del valore complessivo. E questo è già impressionante.

Ma se andiamo a vedere cosa vogliano dire gli orologi di prezzo superiore ai 30mila franchi svizzeri, il numero scende verticalmente: circa 250mila pezzi; ma non così il valore, che rappresenta il 40 per cento delle esportazioni svizzere in termini monetari. Questa ricerca, che ho commissionato recentemente, mi serve per comprendere meglio ogni aspetto di un segmento piccolo, ma importantissimo anche per i valori culturali che coinvolge. Sono dati, insomma, che non mi servono solo per fare considerazioni e previsioni economiche, ma soprattutto per inquadrare ancor meglio un pubblico che, in generale, è più attento. Più consapevole: sa quel che desidera. Un pubblico al quale non devi spiegare le basi, un pubblico, proprio per questo, al quale devi saper parlare in modo diverso, più mirato.

E quando dico parlare intendo riferirmi ad una comunicazione che parte dall’orologio stesso. Dai suoi valori, dalle sue qualità. È necessario, in pratica, approfondire il lavoro per comprendere meglio questa nicchia del mercato. Siamo in un momento storico particolare. Credo che questa nicchia possa avere un futuro di grande interesse per un marchio in grado di stabilire una comunicazione positiva con questo tipo di pubblico. Trovo ci sia bisogno, in pratica, di una messa a fuoco fine sulla comunicazione. E sulla stessa ragion d’essere del marchio».

Bisogna far percepire che si tratta di opere d’arte. E chi colleziona questo tipo di orologi deve essere a tutti gli effetti considerato un collezionista d’arte. Al netto dei fenomeni speculativi.

Guido Terreni: «Sì, certo. E questa sua competenza coinvolge anche oggetti di uso quotidiano come gli orologi. Perché il punto è creare orologi d’arte non solo per quanto riguarda le grandi complicazioni, ma anche l’orologio che indossi tutti i giorni. In questo periodo sto cercando di definire esecuzioni che non solo rispettino la tradizione orologiera, ma si spingano a sublimare ogni singolo componente dell’orologio. Però non devi immaginare un esercizio barocco: non è questo che intendo. Non dobbiamo spingerci a un mero esercizio di tecnica fine a se stessa. Dobbiamo piuttosto usare la tecnica per dare emozioni tramite qualcosa che è certo anche difficile da realizzare, ma con il fine di uscire dalla banalità. Di offrire, indipendentemente dalla sua complicazione, anche un significato culturale.

Sto cercando l’alchimia di un piacere sofisticato nel quale però i valori non provengono dagli orpelli o dalla quantità di materiali preziosi che ci metti dentro, ma viene piuttosto da una idea semplice, forte, che mostri l’arte necessaria per realizzare un certo tipo d’orologio.

Un esempio su tutti è l’Hijri Perpetual Calendar, quello premiato a Ginevra nello scorso novembre. È un ottimo esempio di come un orologio possa dialogare con una cultura diversa dalla nostra: si tratta di un calendario perpetuo basato sul calendario musulmano. È di una complessità per noi sorprendente, perché bisogna periodicamente aggiungere interi mesi visto che si basa sul calendario lunare. Un modo di vedere il tempo diverso dal nostro. Ma quel che conta è che, realizzando questo orologio, metti a disposizione di una cultura differente l’orologeria, rispettandone le regole. Un patrimonio dell’intera umanità, appunto».