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La rivoluzione tecnologica dell’orologeria svizzera. Amarcord

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La sensazione della svolta totale l’ho avuta nel 1996, quando Patek Philippe trasferì i propri laboratori nella fabbrica di Plan-les-Ouates. Un gruppetto di giornalisti fu accompagnato a visitare la nuova sede. Bellissima, organizzata in modo esemplare, ma… Non potevo credere ai miei occhi: nell’ufficio progettazione ho contato non meno di quattro computer Silicon Graphics. Questo mi ha fatto capire che Patek Philippe – il più puro distillato di tradizione stagionata – era in realtà una marca proiettata nel futuro. E con lei tutte altre. Iniziava così la rivoluzione tecnologica dell’orologeria svizzera.

Gli esordi della rivoluzione tecnologica dell’orologeria

Tante storie per quattro computer, mi dirai tu? Quattro computer e ti scatta il futuro? Guarda che nel 1996 i computer esistevano, eccome! Sì, ti rispondo io, ma i Silicon Graphics erano allora il massimo del massimo, gli unici in grado di lavorare in 3D. Oggi la Silicon Graphics ha chiuso per scelte aziendali sbagliate (è la concorrenza, bellezza!), ma a quei tempi uno dei suoi programmi – elaborato su misura per Patek – era già in grado di simulare qualunque movimento in azione, anche quelli complicati. Era in grado di far ruotare il movimento al comando del mouse e persino di calcolare (sottolineando il tutto in vari colori) i punti in cui l’attrito superava certi limiti, i punti in cui si poteva rischiare una rottura da urto laterale e molto altro ancora.

Improvvisamente il passato si travasava – intatto, si badi bene – in un presente che sapeva di futuro. Perché di lì a pochi anni dal programma Cad (Computer Aided Design) uscirono persino le istruzioni per le macchine che poi dovevano realizzare ponti e platine. In Svizzera aveva attecchito la rivoluzione tecnologica dell’orologeria.

L’esperienza necessaria era assolutamente la stessa del passato, ma si tagliavano in maniera drastica i tempi di progettazione. E soprattutto si aumentava in modo straordinario l’affidabilità: non più decine di prototipi da sottoporre a test per poi trovare la causa degli eventuali difetti (sempre in agguato). Si passava direttamente ad un modello finale di grandi dimensioni, con le parti del movimento realizzate in plexiglas di vari colori. E di lì ai due, al massimo tre prototipi finali.

Il lavoro era ancora da certosini, monaci dalla pazienza proverbiale. Come mi spiegava un tecnico: «Sposti una ruota di una frazione di millimetro, perché così crea troppo attrito, e risolvi il problema. Ma magari ne crei altri due più in là. Il lavoro, alla fine, è lo stesso, ma non perdi tempo a far realizzare prototipi che magari ti mettono su una strada sbagliata per un errore del prototipo stesso, non dei tuoi calcoli. Per me è una rivoluzione». E lo era davvero.

Ma perché la tradizione insegue la modernità?

C’è un antefatto fondamentale. Finita la Seconda Guerra Mondiale la richiesta di orologi era molto elevata: furono uno strumento utilissimo per gestire in maniera ordinata il nuovo mondo e l’efficienza che richiedeva. Ma gli esemplari meccanici da polso erano maledettamente delicati. Ancora negli anni Sessanta era normale che un orologio non troppo costoso si rompesse tre o quattro volte all’anno. L’Alta Orologeria, i grandi marchi, riuscivano a superare indenni anche un anno intero, ma costavano (lasciamo perdere le complicazioni: parlo di solo tempo o al massimo di cronografi) cifre ancor più spropositate di oggi, fatte le debite proporzioni.

L’industria svizzera pensò allora di passare alla tecnologia elettronica, da lei stessa inventata. E questo le causò una serie spaventosa di fallimenti: le fabbriche chiudevano una dopo l’altra. Perché? Perché gli svizzeri continuavano a produrre i movimenti al quarzo con gli stessi metodi impiegati per i movimenti meccanici. Invece le marche giapponesi passarono subito a circuiti integrati e metodologie automatizzate, abbattendo i prezzi e sputando via dal mercato gli orologi svizzeri. La chiave, quindi, stava nel cambiare i metodi di produzione. Andavano modernizzati. Per tagliare tempi e costi (che spesso sono la stessa cosa), senza però incidere sulla qualità, sulla tradizione di orologi che cercano l’eternità e non l’usa e getta.

Dall’alta orologeria all’altra orologeria

Perché la rivoluzione tecnologica dell’orologeria parte dall’alto? Per una questione economica, ovviamente. Innanzitutto l’alta orologeria è più ricca, perciò può permettersi tecnologie (relativamente) sperimentali e quindi costose. E poi perché, se qualcosa non va per il verso giusto, una cosa è sbagliare un migliaio di orologi; altra cosa sbagliarne decine di migliaia. Ma il travaso di tecnologie (che però non sempre va dall’alto in basso, ma anche in senso contrario: ne riparleremo) era ormai un dato di fatto. Qualcosa di simile successe anche con i freni a disco, che vennero impiegati prima sulle vetture più costose, per poi diventare una caratteristica irrinunciabile.

La cosa divertente è che allora se ne parlava poco, per paura che venisse considerato un “trucco” contrario alle tradizionali regole dell’alta orologeria. Io non so se Patek Philippe sia stata la prima ad usare le tecnologie digitali e i computer Silicon Graphics. Se sia stata la prima in Svizzera ad avviare la rivoluzione tecnologica dell’orologeria. Ma sono certo sia stata la prima a mostrare con sincero orgoglio questo passaggio epocale.

Patek, proprio per la sua posizione di riconosciuto “primo della classe”, ha di fatto sdoganato la progettazione computerizzata dei movimenti. E se avesse potuto farlo Patek senza essere spernacchiata, allora la cosa sarebbe stata lecita. Nel giro di una decina d’anni gli istruttori della Silicon Graphics li incontravi – sempre gli stessi – un po’ dappertutto. Uno mi offrì anche un computer usato e mi pento ancora di non averlo comprato.

Tecnologia a buon prezzo?

Man mano che queste tecnologie calavano di prezzo (economia di scala) e miglioravano qualitativamente, i vantaggi si riversavano sull’intera produzione svizzera, in ogni fascia di prezzo. Perché se avessero portato miglioramenti alla produzione di movimenti d’alta orologeria, a maggior ragione sarebbero stati in grado di consentire movimenti di costo contenuto, sì, ma di qualità via via migliore. E man mano l’asticella della qualità si alzava, costringendo i produttori a rincorrere record sempre nuovi. Miglioramenti sempre più minuscoli per quanto riguarda gli ordini di grandezza, ma non per questo meno importanti.

Pensate che nel 1844 Antoine LeCoultre inventò il milionometro, uno strumento meccanico in grado di misurare il micron (la milionesima parte del metro). Oggi i pochi decimi di micron di cui ha bisogno l’orologeria attuale sono misurati con un raggio laser, dopo aver posato il pezzo su una base sismica (lastre di granito alternate a fogli isolanti di caucciù) perché persino la naturale vibrazione della crosta terrestre potrebbe far sballare la misurazione. Questo travaso di tecnologia ha fatto sì che la qualità degli orologi meno costosi potesse aumentare in maniera davvero sorprendente: oggi nessun orologio, anche di prezzo contenuto, si rompe facilmente, tranne casi davvero rari.

Ma allora non è che gli orologi sono tutti uguali?

Beh, no, è ovvio. Un po’ dipende dalle tolleranze che un marchio impone: per l’alta orologeria cinque decimi di micron (prendi un millimetro e dividilo per mille; quel pezzettino dividilo per due e hai cinque/decimi di micron) sono un autentico orrore, se ritiene necessarie tolleranze più strette. Per un marchio più economico però bastano e avanzano.

Ma quel che più conta è che la tecnologia, contrariamente a quanto alcuni credono, non ha affatto castrato la creatività. Al contrario. Oggi che progettisti straordinari e quindi straordinariamente costosi non devono più perdere tempo con decine di prototipi, possono dedicare le energie alle ipotesi, a sogni di orologi pazzeschi. Magari anche ipotesi sbagliate, che però non bloccano un gruppo di lavoro per mese (o per anni) su un sogno impossibile.

Oggi si producono orologi incredibilmente diversi fra di loro e in quantità comunque limitate. Proprio grazie all’uso di quelle tecnologie computerizzate che tanti anni fa, nel 1996, Philippe Stern, padre di Thierry e a quei tempi alla guida di Patek Philippe, presentò orgogliosamente ai giornalisti. Non era solo l’inaugurazione di una nuova fabbrica, ma l’inizio della rivoluzione tecnologica dell’orologeria svizzera.