Parafrasando la celebre hit di Britney Spears mi viene da scrivere “Oops! It did it again”. Swatch lo ha fatto ancora, ha lanciato un nuovo MoonSwatch, il MoonSwatch 1965. Questa volta l’occasione sono i 60 anni da quando lo Speedmaster di Omega ha ottenuto la qualifica di idoneità al volo spaziale. Un’occasione coerente con la collezione e con il rapporto che lega MoonSwatch e Speedmaster.
Il lancio della collezione MoonSwatch a marzo del 2022 è stato l’unico, vero e indiscusso crack dell’orologeria degli ultimi anni. Un’onda lunga che per alcune referenze dura tuttora, anche grazie alla capacità di Swatch di tenere alta l’attenzione sulla linea con nuove uscite periodiche, non sempre a mio avviso coerenti come invece è quello del MoonSwatch 1965.
MoonSwatch sì, MoonSwatch no
Al di là dei Mission to Moon con la lancetta dei secondi in oro, con le fragole, i fiocchi di neve, le lanterne svizzere e altre amenità fuori controllo, alcune varianti degli scorsi anni hanno avuto senso. Penso ai due orologi con fasi lunari, il bianco e il nero, con Snoopy accoccolato sulle lune: coerente con la storia lunare dello Speedmaster e con il legame che lo unisce al bracchetto disegnato da Charles M. Schulz.
O ancora al Mission to Earthphase, con la complicazione delle fasi terrestri proposta come prima assoluta in orologeria. Una visione che gli astronauti avevano dalla superficie lunare per cui, anche qui, sensata. Un po’ meno, a mio avviso, il Mission to Super Blue Moonphase: l’omaggio alla luna piena di colore blu del 19 agosto, la prima superluna dell’anno, mi è tanto sembrato un modo furbo per tenere viva la collezione. Così come i tre orologi della linea Mission on Earth (Lava, Polar Lights e Desert): dopotutto parliamo di MoonSwatch, non di EarthSwatch.
Invece stavolta, per come la vedo io, il MoonSwatch 1965 è totalmente sensato. Perché con il suo quadrante candido è un omaggio anche a tutti gli Speedmaster bianchi che, negli anni, sono diventate referenze ricercatissime dai collezionisti. E perché l’ottenimento della qualifica di idoneità al volo spaziale da parte del cronografo di Omega è una delle pietre miliari dell’orologeria, a prescindere dal fatto che l’orologio piaccia o meno.
Altro che marketing…
A tal proposito, in questo articolo voglio deliberatamente tralasciare di parlare del MoonSwatch 1965. O meglio, lascio che a farlo siano le didascalie per ciò che riguarda le caratteristiche dell’orologio, che in alcuni casi lo distinguono dagli altri pezzi della collezione, in altri sono quelle che ben conosciamo fin dal lancio del marzo 2022. Credo siano più interessanti un excursus storico (breve, lo prometto, e spero non noioso) sulla corsa allo spazio dell’orologeria negli anni ’60 e il racconto di ciò che significa, per un orologio, essere abilitato all’uso in orbita.
Una cosa che chi non è del settore considera spesso come un argomento di vendita, che Omega utilizza da sei decenni per rendere appetibile il proprio cronografo. Qualcosa che, invece, ha alle spalle una serie di procedure e di test rigorosissimi i quali, all’epoca, facevano tremare qualsiasi manifattura orologiera intendesse mandare i propri pezzi in orbita. Il fatto di averli superati era e rimane una conquista tecnologica per l’intero settore.
Dalla storia al MoonSwatch 1965
Con l’inizio del programma spaziale americano, la Nasa – l’Agenzia spaziale statunitense – tra le altre cose si mise anche alla ricerca di orologi e cronometri per il calcolo dei tempi a bordo delle navicelle. Dovevano essere strumenti estremamente affidabili per un programma spaziale che puntava a stabilire la superiorità degli Stati Uniti in quel settore, principalmente sull’Urss.
La selezione ufficiale per avere strumenti capaci di sottostare a prove impegnative in situazioni ambientali estreme, senza perdere precisione e affidabilità, portò alla decisione di scegliere un solo modello prodotto da un singolo marchio. La Nasa chiese a dieci produttori di presentare domanda come fornitori: Elgin, Benrus, Bulova, Gruen, Hamilton, Longines, Mido, Lucien Piccard, Omega e Rolex.
Stando ai documenti della Nasa presenti nell’archivio dell’Omega Museum di Bienne, risposero all’offerta formale della Nasa per ottenere i cosiddetti RFP (o Request for Proposals) solo quattro marchi dei dieci interpellati: Omega, Longines-Wittnauer, Rolex e Hamilton. Quest’ultima però scartata subito perché, pur realizzando ottimi cronografi certificati, aveva in produzione solo pezzi da tasca.
Omega mise sul piatto lo Speedmaster ST105.003 – con il calibro Lemania 321 -, Longines-Wittnauer il cronografo 235T, Rolex il 6238, conosciuto anche come pre-Daytona, con un Valjoux 72 nella cassa. Tutt’e tre dovettero sottostare alle terribili prove da sforzo richieste dalla Nasa, che riassumo per comodità più sotto, ma solo lo Speedmaster, benché acciaccato, riuscì a ottenere risultati soddisfacenti. Lo testimonia il resoconto scritto dell’assistente Direttore per le operazioni dell’equipaggio a bordo del Lem di Apollo 11, con data 1° marzo 1965, quella celebrata dal MoonSwatch 1965.
I risultati dei test
Secondo il report, il Rolex si fermò due volte durante il test dell’umidità relativa; nel test ad alta temperatura la lancetta dei secondi si piegò e le altre lancette si bloccarono, cosa che indusse la Nasa a non effettuare altri test. Nel Longines-Wittnauer, il vetro si piegò e si staccò durante i test ad alta temperatura e di decompressione. Non furono effettuati ulteriori test su quel cronografo.
Lo Speedmaster andò avanti di 21 minuti durante il test di decompressione e ne perse 15 durante quello di accelerazione, con anche la distruzione del materiale luminescente durante le prove. Tuttavia, come risultato globale dei test, funzionò in modo soddisfacente e la Nasa ne raccomandò l’impiego per la sua “maggiore precisione, affidabilità, leggibilità e facilità d’uso”.
All’inferno e ritorno (per Omega)
Che cosa dovette sopportare quell’orologio cui oggi il MoonSwatch 1965 rende omaggio per poter volare nello spazio? Undici, terribili test, di cui si trova oggi un resoconto nell’archivio storico di Omega. Test ad alte temperature, in cui era esposto a 70°C per 48 ore, poi a 93°C per 30 minuti in un vuoto parziale. Basse temperature: esposto a -18°C per 4 ore. Sotto vuoto: riscaldato in una camera a vuoto e poi raffreddato a -18°C per diversi cicli. Umidità: esposto a dieci cicli di 24 ore in condizioni di umidità superiore al 95%, con temperature tra 25°C e 70°C.
E poi ancora, test di corrosione: esposto a un’atmosfera di ossigeno a 70°C per 48 ore. Resistenza agli urti: esposto a sei urti di 40 G in sei direzioni diverse. Accelerazione: sottoposto ad accelerazione progressiva a 7,25 G per circa cinque minuti e poi a 16 G per 30 secondi in tre assi. Bassa pressione: sottoposto a una pressione di 10-6 atmosfere a 70°C per 90 minuti, poi a 93°C per 30 minuti. Naturalmente, test in alta pressione: aria a 1,6 atmosfere per 60 minuti. Test di vibrazione, in cui era sottoposto a vibrazioni casuali su tre assi tra 5 e 2.000 Hz, con un’accelerazione di 8,8 G. Infine, il test del suono: bombardato a 130 decibel a frequenze da 40 a 10.000 Hz per 30 minuti.
Insomma, un inferno, altro che argomento di marketing. Giusto quindi, da parte di Swatch, omaggiare quel traguardo e quella data con il MoonSwatch 1965 che, lo ricordo per i distratti, non è un Moonwatch. Ma se metterselo al polso può far sentire chi lo indossa parte della storia dell’orologeria, che cosa dire se non… missione compiuta?